“Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” È inquietante questa domanda di Gesù nel vangelo di Luca (18,8). Sembra spiazzare ogni falsa sicurezza nel cuore di chi crede. È un invito a non dare nulla per scontato nel nostro rapporto con Dio, a viverlo, anzi, com’è in ogni vero rapporto d’amore, nel rischio della libertà e nella novità da conquistare ogni giorno. È una sfida a evitare la caduta nell’abitudinario per riscoprire la bellezza dell’incontro, la radicalità del legame che unisce cuore a cuore e l’attesa sempre nuova che lo caratterizza.
Protagonisti di questo incontro siamo noi, col nostro cuore inquieto, e il Dio che non ha esitato a farsi uomo per farci sentire il Suo amore appassionato, la Sua prossimità alle fatiche nella nostra condizione mortale e all’audacia dell’amore, che accetta di giocarsi sull’eterno nella fragilità del tempo. È in questo rischio che sta la bellezza della fede: ed è solo accettando di correrlo che si può anche sperimentare lo spalancarsi dell’abisso divino, l’abbraccio benedicente che risponde alla nostra invocazione e alla resa della nostra ricerca.
È quanto provavo ad esprimere in questi versi, scritti al passaggio fra i due millenni, di cui mi par di sentire ancora viva l’attualità: “Forse verrai / quando i miei occhi / cercheranno nel buio / la via dell’orizzonte. / Forse, di quando in quando / sembrerà vana l’attesa / alla mia fede. / Eppure, questo ‘forse’ / sarà lo spazio / della mia salvezza: / per esso / liberamente / potrò riconoscerTi, / potrà il mio cuore / liberamente amarTi, / e la preghiera / liberamente / invocarTi nella notte. / Forse, più grande / sarà l’ansia di vederTi, / più forte la stanchezza / dell’attesa. / Sta qui l’ultimo rischio, / la dignità umile / del mio possibile, impossibile / amore? / Forse verrai / quando i miei occhi / cercheranno nel buio / la via dell’orizzonte. / E io Ti attenderò. / E il buio / sarà per me / la via dell’orizzonte. / Fin quando Tu verrai…” (Il libro del viandante e dell’amore divino, Milano 20082, 142s).
È questo il senso del tempo liturgico dell’Avvento: non semplice ripetizione di un ciclo, ma il ravvivarsi del desiderio e dell’attesa, il riscoprire l’Altro divino e trascendente come il Dio che viene, l’imminenza che sovrasta e rinnova, aprendoci alle sorprese della speranza e riconoscendo l’inesorabile caducità di ciò che passa in attesa di Colui che viene e del suo regno, che non passerà mai. Celebrare il Natale del Dio con noi non è semplice atto della memoria, ripetizione di gesti trasmessi nella catena della tradizione e degli affetti, ma novità di una venuta in un oggi – il nostro oggi – diverso da ogni altro e proprio così importante per noi.
È un rinnovato prendere coscienza del cammino compiuto e di quello che ci aspetta, un fare bilanci sulla crescita di ciascuno di noi in ciò che più conta, la nostra capacità di amare e di compiere il bene con generosità oltre ogni calcolo. È un guardare ai nostri rapporti con lo sguardo di chi ne misura l’autenticità non sul guadagno che possiamo riceverne, ma sulla verità di quanto mettiamo in gioco e riusciamo a trasmettere e ad accogliere in ricchezza di umanità. È un aprirci al futuro non solo come proiezione del nostro presente, prolungamento dell’“homo absconditus” che è in ciascuno di noi, ma anche e soprattutto come futuro assoluto, indipendente dalla nostra volontà e dai nostri calcoli, che ci viene incontro come destino e come patria ultima.
Lo sguardo della fede sa riconoscere in questo futuro l’avvento di Dio, il compiersi delle Sue promesse, e sa andare incontro ad esso con speranza, accettando la sfida del nuovo inizio, nella consapevolezza di quanto sia necessario affidarsi ai disegni dell’Altissimo, che superano e spesso sconvolgono i nostri disegni. Dove tutto questo avviene è il Natale di Dio nella nostra vita e il nostro rinascere nella vita del Dio vivo. Una promessa e una sfida, cui nessuno può sottarsi, credente o non credente che sia, perché ad avvolgerci tutti è il mistero, e il rischio di Dio lo corre tanto chi crede, quanto chi si sottrae all’abbraccio e resiste, pur sapendo che la sola vera questione aperta per ogni pensante è quella significata dalla tenerezza del presepio e dal dramma della croce e della resurrezione del Figlio eterno, fatto uomo per noi. Lottare con Dio è l’atto più degno della vita che ci è data. Lasciare che Lui vinca è la scelta che fa del Natale fuori di noi e intorno a noi il Natale più intimo a noi di noi stessi, la rinascita nella speranza e nell’amore più forte della morte.
Il “logos” del pensiero esige di farsi a questo punto “hymnos” della preghiera. E le parole della liturgia si prestano più di tutte le altre a oltrepassare il confine fra l’attesa e l’incontro: “O Cristo, stella radiosa del mattino, incarnazione dell’infinito amore, salvezza sempre invocata e sempre attesa, tutta la Chiesa ora ti grida come la sposa pronta per le nozze: vieni Signore Gesù, unica speranza del mondo!” (liturgia romana dell’Avvento).
“Oggi nasce dalla Vergine colui che tiene in mano tutta la creazione. È avvolto in povere fasce come un mortale, colui che è per essenza intoccabile. Viene deposto in una mangiatoia, il Dio che in principio ha fissato i cieli. Si nutre di latte dalle mammelle, colui che nel deserto ha fatto piovere manna per il popolo. Invita i magi lo sposo della Chiesa. Prende i loro doni il Figlio della Vergine. Adoriamo, o Cristo, la tua nascita. Mostraci il tuo volto divino” (liturgia bizantina del Natale).
È credendo a questa “impossibile possibilità di Dio” (Karl Barth), divenuta realtà nel Bambino adorato dai pastori a Betlemme, che si possono osare passi come quelli che hanno portato Papa Francesco a farsi mediatore della riconciliazione avviata – nella sorpresa dei più – fra gli Stati Uniti e Cuba. Proprio così la nascita del Figlio eterno nella carne si fa sorgente di vita nuova nel presente del mondo. Ed è in questo orizzonte di speranza che ha il suo senso più vero l’augurare a tutti e a ciascuno: “Buon Natale”!