Dopo la parentesi dublinese i miei studi mi hanno portato a Malta per un’internship. L’ambientazione e il contesto sono totalmente mutati ma la personale ricerca sulle radici dell’arte sacra dei luoghi non è cambiata. Naturalmente gran parte del lavoro dello storico dell’arte si basa sull’osservazione, ma quella particolare inclinazione al “vedere” è un qualcosa di più profondo, che trascende i limiti dell’atto meccanico per caratterizzare, in senso positivo, un “mestiere” sempre più martirizzato da limitatezze di fondi e di progetti.
È grazie all’analisi e a quella particolare sensibilità di scorgere il bello nei dettagli più nascosti che si attua ogni volta una nuova riscoperta la quale salva e riscatta i luoghi, e soprattutto i luoghi sacri, dall’abbandono e dall’oblio del post-moderno. La storia dell’arte, ce lo insegnano secoli di trattati e di studi, è un’infinita ricapitolazione sul senso profondo, direi quasi antropologico, della creazione umana ed ha bisogno, a seconda dei periodi e dei contesti, di forme espressive e letterarie diverse. Ha bisogno soprattutto di una lettura capace di salvare il senso delle opere e contestualizzare la loro presenza.
Ecco allora come l’atto dell’osservare diventa una differente forme di sentire e di percepire i luoghi, e come lo sguardo dello storico diviene quello di un silenzioso guardiano del tempo. Proprio uno dei simboli di Malta, la Gardjola di Senglea, mi richiama, con i suoi iconici simboli, questa idea diversa di memoria: costruita nel 1551 dal gran maestro De La Sengle, tale torre a picco sul mare presenta sui sei lati occhi, orecchie e una gru che regge un sasso, iconografie che indicano la costante vigilanza dei Cavalieri contro il nemico.
Malta è stata un’isola abitata sin dal neolitico – testimonianza sono le megalitiche strutture templari – ed ha sviluppato una ricchissima cultura artistica in seguito alle colonizzazioni fenicie, greche e romane. Nel Medioevo fu bizantina, araba, normanna ed infine aragonese per finire concessa in affitto perenne dal Regno di Sicilia ai Cavalieri Ospitalieri che avevano da poco perduto Rodi ed erano senza patria: il prezzo simbolico dell’affitto consisteva nella fornitura annuale di un falco da caccia. Questi cavalieri, nati come Cavalieri dell’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, quindi conosciuti come Cavalieri di Rodi e in seguito come Cavalieri di Malta, resistettero nel 1565 al “Grande assedio” da parte dei Turchi dopodiché decisero di fortificare l’isola grazie all’ingegno dell’architetto militare Evangelista Menga, e di spostare la capitale, prima a Birgu, sul monte Sceberras, la penisola che divide il Porto Grande da quello di Marsamuschetto. La nuova città, fortificata da Francesco Laparelli, prese il nome del gran maestro Jean de la Valette, il quale aveva respinto i Turchi, e si chiamò Valletta, o meglio, Humilissima Civitas Valettae (“L’umilissima città di Valletta”). Valletta, così, costruita a strati dal cuore della terra, a pianta reticolare capace di coinvolgere all’interno le correnti fresche provenienti dal mare, ricca di opere d’arte e d’ingegneria custodite da alcuni dei più grandi bastioni progettati dall’ingegno umano, divenne una sorta di faro per l’Occidente nella sua missione di difesa dei confini della Cristianità: una città, come scrisse Walter Scott “costruita da gentiluomini per gentiluomini”.
Una città “profonda” nel senso figurato del termine poiché qui ogni segno ha una forte radice nell’intimo del cuore. Il termine maltese di origine semitica Gheliem si può tradurre infatti con segno, ma una comprensione etimologica delle sue radici implicherebbe un significato più ampio e profondo di Segno e Simbolo. Nelle fughe in prospettiva delle strade verso il mare, animate da improvvisi sali e scendi, leggo la ricerca di un ordine in conflitto con l’immagine labirintica che conferisce la veduta, come se la città fosse essa stessa un muro strutturato su più livelli. Ma proprio questa sensazione di pienezza e coesione, unita all’inafferrabilità dell’impostazione urbana – se vista dal mare – aggiunge mistero e autorevolezza alla costruzione generale di una città progettata come la prua di una nave a guardia dell’orizzonte. La precarietà dell’esistenza, minacciata dal Turco e resa instabile dal perenne conflitto di sopravvivenza col mare, trova tra queste mura un’accoglienza e un rifugio che sanno di simbolico. Lo stesso vale per l’infinito accumulo di immagini e opere sacre.
Agli angoli delle strade, in nicchie e tabernacoli, come vegliardi sorgono tantissime statue di santi e madonne, ognuna con la propria invocazione e la particolare indulgenza concessa da papi o cardinali, nel corso dei secoli, a chi reciti un’Ave, Peter e Gloria lungo il percorso. Sono statue “parlanti” e vive, nelle loro pose barocche e nei drappeggi che fendono l’umida aria di mare che sale dai vicoli. Ciò ritorna, nell’oggi, nell’infinita esibizione di immagini sacre sugli stipiti delle porte o nelle nicchie, nascoste dai mattoni, che ardono la notte come pozze di luce tra le pieghe intricate delle strade. Nelle chiese, poi, dopo una fase di austerità architettonica, ha prevalso l’autentico barocco romano della Controriforma amplificato, nel Settecento e Ottocento, da una tendenza alla decorazione nella quale non è difficile rinvenire un sottile senso di terrore per il vuoto che esalta l’accumulo ma non l’eccesso, per cui in ogni interno troviamo un amore per il dettaglio e l’esibizione quasi commovente.
Prendo ad esempio la superba chiesa di St Paul’s Shipwreck, una delle più antiche di Valletta, una chiesa “profonda” non solo perché costruita nel cuore del declivio e rischiarata, con difficoltà, dai raggi di sole ma perché custodita dai maltesi come uno scrigno di reliquie. Qui è conservato il polso destro di San Paolo, un frammento della nave del suo naufragio e una sezione della colonna dove fu decapitato, donata da Pio VII nel 1818. Gli affreschi della navata e della cupola, mistici e quasi freddi nell’eccessivo classicismo, sono di Attilio Palombi, nelle cappelle si possono trovare applicazioni di marmi policromi su altri marmi, molti quadri devozionali, soprattutto Madonne, hanno gioielli come ornamenti e splendono di bagliori nella penombra sacra mentre ex-voto adornano le piccole cappelle che accolgono splendide statue lignee. Ogni dettaglio racconta una storia. Giovan Battista Delia nel 1917 scolpì la statua dell’Immacolata dall’albero maestro della nave Hibernia affondata nel porto di Valletta, mentre nella cappella delle reliquie un’intera via crucis è stata intagliata su grandiose conchiglie dal colore delle perle. Una foto impolverata, in sacrestia, mostra l’altare posticcio completamente in argento, del 1741, allestito sull’altare principale come “Trionfo” per il Santissimo ed è un vero e proprio tripudio barocco, oltre che tra i lavori di artigianato artistico più belli della città.
Le chiese di Malta sono tante, per due isole che, insieme, non raggiungono i quaranta chilometri di lunghezza. Alcuni dati parlano di 220 tra basiliche, cattedrali, chiese e cappelle, altri riportano il numero di 365, come la lunghezza dell’anno, cosicché si potrebbe celebrare la messa ogni giorno in un posto diverso. Certo è che le chiese maltesi sono un celebrazione di arte e architettura e segnano, indiscutibilmente, con il loro elevarsi, il paesaggio dato che hanno, quasi tutte, misure monumentali. La struttura delle facciate, con due torri campanarie laterali, probabilmente, è ispirata alla Concattedrale di San Giovanni a Valletta, realizzata intorno al 1570 da Girolamo Cassaro in severe forme compatte, quasi militari, e debitrice a sua volta della facciata del Duomo di Monreale, ma col tempo le soluzioni compositive e decorative hanno portato ad una varietà di misure e di variazioni sul tema sempre su scala colossale, con l’aggiunta di imponenti cupole che difficilmente scendono sotto i t
renta metri.
Basti pensare che in una piccola cittadina dell’entroterra, Mosta, è presente la terza cupola autoportante più grande del mondo: è la Rotonda di Santa Maria Assunta progettata da Giorgio Grognet de Vassé a diretta imitazione della cupola del Pantheon. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, dopo le tante distruzioni causate dai bombardamenti, inoltre, lontano da sperimentalismi o soluzioni moderniste, dipendente di certo dall’isolamento dell’isola ma anche e soprattutto dalla volontà di proseguire la cultura artistica locale, è prevalso uno stile ricostruttivo in diretta relazione con la tradizione. Molte chiese sono state riedificate rispettando le forme originali e tantissime sono state decorate con cicli narrativi rigorosamente figurativi. Gli artisti di tale generazione, Josef Kalleya, Alfred Chircop, George Preca, Anton Inglot, Emvin Cremona, Frank Portelli, Antoine Camilleri e Esprit Barthet, hanno formato pertanto un vero e proprio gruppo che non ha permesso la dispersione dell’arte locale e la distruzione della cultura formale. Ma la tradizione, tra queste chiese colossali come montagne che al tramonto si vestono del caldo colore rosato della pietra locale, morbida come il travertino e pertanto perfetta per essere lavorata, non è una forma superficiale di fede bensì la condizione stessa del rapporto con il sacro. I due campanili, presenti in molte chiese, hanno orologi che scandiscono tempi diversi: uno riporta l’ora solare, l’altro segna di proposito un’ora errata per confondere il demonio affinché non si presenti durante la Santa Messa. Quest’idea “esorcistica” di rapporto col tempo è in fondo una trasposizione della funzione delle campane, che qui nell’isola sono moltissime e nell’ora del vespro, osservando il tramonto dai Barakka Gardens, riempiono tutta la vista di suoni.
Durante le festività o nelle ricorrenze dei santi patroni gli spazi vengono addobbati con una varietà di decorazioni posticce che sono, probabilmente, tra i più autentici residui della festa barocca: nelle strade limitrofe vengono posizionati trionfi lignei, statue di putti e di santi, addobbi floreali, negli interni le pareti vengono ricoperte da drappi rossi damascati, lettere dorate e fasce simboliche mentre imponenti lampadari a bracci di cristallo sono fatti scendere dagli archi illuminando a giorno ogni dettaglio, i santi, calati dai loro altari, vengono allestiti su “trionfi” o su imponenti macchine sceniche per poi essere portati in processione su piedistalli d’argento mentre dai balconi -I caratteristici “gallariji”-, nascosti da ricche lenzuola decorate, i fedeli lanciano coriandoli che altro non sono se non preghiere stampate e tagliate a strisce per essere affidate alla grazia divina. Gli esterni, poi, sono caratterizzati da una miriade di lampadine gialle e colorate, e tutta la chiesa, cupola compresa, quando possibile è ricoperta da punti di luce elettrica che sottolineano ogni dettaglio architettonico e la fanno splendere, nella notte, come un autentico reliquiario.
Se si vuole avere una pallida idea di come fosse addobbata la Basilica di San Pietro quando, in concomitanza con importanti eventi o canonizzazioni, veniva illuminata da migliaia di candele su facciata, cupola e cornicioni a cura della “Fabbrica”, si dovrebbe guardare a queste chiese e al loro modo di utilizzare un elemento moderno in chiave “barocca”. Nella chiesa di Cospicua, nella solennità della festa dell’Immacolata, per esempio, l’eccesso della decorazione non è mai horror vacui ma esaltazione del dogma e pertanto ogni spazio dell’edificio sacro è riconvertito in “Trionfo” e per l’occasione vengono mostrate tutte le ricchezze liturgiche e artistiche della parrocchia: ogni altare viene rivestito col suo paliotto d’argento, sull’altere maggiore candelabri e statue di santi circondano un’imponente crocifisso mentre all’esterno, su basamenti lignei temporanei, vengono issati santi, profeti e scene di vita della Vergine in modo tale che la dimensione di festa e di contemplazione investa tutta la comunità. A differenza di quanto possa sembrare, infatti, è di notte o con le tenebre che si apprezza maggiormente la grandezza di questi apparati e la magnificenza delle chiese, come se si svolgesse tra le strette stradine e gli alti edifici una perenne guerra santa tra angeli e demoni, e gli eccessi di luce e di decorazioni fossero un viatico per la vittoria della fede. Del resto è proprio il concetto di Vittoria e di Giustizia, portato avanti per secoli dai Cavalieri e rinvenibile in moltissime allegorie, a caratterizzare in senso trionfalistico ogni architettura civile e soprattutto religiosa perché il “Trionfo” costruito sulla terra non è altro che preannuncio della Gloria divina. Ecco allora come ritorna questa tendenza, quasi ossessiva, alla decorazione e al particolare e come la Forma venga continuata attraverso l’elevazione di chiese monumentali, la cura per il dettaglio, l’insistenza per il figurativo, la religiosità popolare. La tradizione, soprattutto in arte, è un luogo dello spirito.