Gesù è l'amore straordinario che riempie l'ordinario

Commento al Vangelo della III Domenica (“Gaudete”) di Avvento 2014 – Anno B

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La “gioia” alla quale la Chiesa ci invita in questa III Domenica del Tempo di Avvento, detta appunto “Gaudete”, nasce da un “no”. Un no netto, deciso, senza discussioni. Il “no” di Giovanni che prepara il “sì” a Gesù. Un “no” dell’amico che accompagna lo Sposo alla Sposa, perché siano uniti in un “si” indissolubile per l’eternità.

Pensate quanto sia stato fecondo il “no” di Giovanni. E quanto, invece, siano sterili e dannosi i nostri troppi “si”. Quelli frettolosamente pronunciati di fronte a chi ci chiede “chi sei? Che cosa dici di te stesso?”. I “si” per affermare un’identità che, invece, non ci appartiene.

E’ molto interessante capire il contesto del dialogo tra i “giudei” e il Battista. Nel Vangelo di Giovanni i “giudei” normalmente non definiscono il popolo di Israele, ma i loro capi. Che, infatti, mandano “sacerdoti e leviti” a Giovanni da “Gerusalemme”, il centro religioso e del potere.

E non per una chiacchierata tra amici; non sono mossi da una sincera curiosità. Sottopongono invece Giovanni a un vero e proprio processo, come testimoniano i termini tecnici impiegati dall’evangelista. Un processo, perché? Perché fiutavano il pericolo e avevano paura.

Come tutti i potenti, veri o presunti, i capi del popolo stavano sempre sulla difensiva, caso mai qualcuno tentasse di rubargli la “cattedra di Mosè” sulla quale si erano seduti. Erano l’altra faccia di Erode, anche lui ossessionato dal prestigio e dal titolo di re.

Come il mondo nel quale viviamo, quello di cui ci scandalizziamo quando un’inchiesta sale all’onore delle cronache svelando il malaffare mafioso che si nascondeva nei centri del potere. Un mondo che, per quanto ci turbi e ci indigni, non è così lontano da noi.

Non segue il sistema di associazione mafiosa anche la nostra rete di relazioni? No, non sobbalzate sulla sedia, non vi scandalizzate, altrimenti non potrete gustare la gioia di questa domenica.

Sì, anche noi gestiamo un potere di stampo mafioso, proprio come appare nelle fiction e come, purtroppo, accade nella realtà. Anche noi ci leghiamo anima e corpo agli altri in patti che sono compromessi nei quali riduciamo in cenere la nostra autentica identità, come fanno gli appartenenti alle famiglie dell’onorata società quando bruciano il santino in segno di eterna fedeltà.

Solo pagando questo prezzo, infatti, abbiamo la speranza di diventare qualcuno, e comandare nei nostri “mandamenti” quotidiani. Ma forse non ci accorgiamo che siamo effettivamente “mandati”, cioè comandati, da qualcun altro, il padrino più potente, il capo dei capi. Il demonio che, balenandoci l’opportunità di diventare come Dio, si è preso la nostra vita.

“Tu sei Dio”, ci ha detto stringendo il patto che ci ha fatti suoi “picciotti”, e sarai realizzato solo nella misura in cui il mondo ti riconoscerà tale. Ma che fatica quella di dover sempre ripetere che “sì”, siamo dio. Che sforzo e che stress dover essere sempre all’altezza del posto più in alto, mentre la storia reale di ogni giorno ci obbliga a strisciare, come il serpente.

Marito, moglie, figli, parrocchiani, lavoro, studio, salute, portafoglio, ogni frammento della nostra vita si incarica senza pietà di contestarci le false generalità che millantiamo con ogni espediente ipocrita. Gli eventi e le persone ci presentano il tampone per imprimerci le impronte digitali, e, fatalmente, non c’è una volta che coincidano con quelle di Dio.

Spiacenti, ci dicono prove inconfutabili alla mano, ma anche un vescovo o un prete, per quanto di dedichino agli altri, e predichino “divinamente”, non sono Dio. Come non lo sono i papà e le mamme migliori di questo mondo. Come non lo siamo in nessun angolo del “mandamento” nel quale vorremmo comandare.

Non ci ascoltano accidenti, non fanno quello che diciamo, neanche quando, al colmo dell’ira, lo imponiamo con la forza. Qualcuno, per paura, ci farà credere di compiere i nostri dettami, ma il cuore è lontanissimo da noi, e questo ci ferisce più della stessa ribellione, perché ci apre gli occhi sulla solitudine che affligge tutti gli aspiranti Dio. Comanda il demonio, non noi. Ci ha illuso per tenerci al guinzaglio.

Proprio come facciamo noi con gli altri, ridotti a merce da comprare, usare e buttar via. Perché laddove non c’è un io con un’identità autentica non ci sarà mai un tu da contemplare, rispettare e amare. Piuttosto, quando ci si sentirà processati da chi ha il potere e lo deve difendere, da chi ci è accanto ed esige gli stessi diritti, si dovrà balbettare un improbabile “sì, sono dio”, tentando di salvarsi nella menzogna, proprio come fanno i picciotti che hanno tradito davanti a chi li interroga.

Non è proprio così che va la nostra vita? Non è uno sforzo sovrumano per dimostrare di essere quello che non siamo? Non passiamo le ore appese a un “sì” di menzogna che ha gettato tutta la nostra vita nell’ipocrisia? Se lo accettiamo allora possiamo aprirci alla “gioia”.

Siamo peccatori, e così dovremmo presentarci a tutti: “Piacere sono tal dei tali, non sono Dio. Sono solo un peccatore”. Giovanni Battista lo ha fatto, e per questo Gesù dice di lui che era “il più grande tra i nati di donna”. Il più grande perché il più umile, il più sincero, il più realista.

Figlio di un miracolo che aveva cambiato la sterilità della madre in fecondità, aveva esultato di gioia alla presenza di Dio fatto carne. Giovanni era “lieto” di non essere il Messia, per lui era tutto essere lì, sulla soglia della novità impensabile che avrebbe rigenerato ogni uomo.

Sapeva che era nato per aprire il cammino alla Verità. Non poteva ingannarsi e ingannare nessuno; sapeva bene chi era perché, così vicino a Dio fatto uomo, amico intimo dello Sposo unico e vero, sapeva ancor meglio chi non era.

Per ogni carne debole e peccatrice “confessò e non negò” di non essere quello che il serpente aveva affermato. Per questo è la “voce” di ogni uomo nato da donna, secondo la carne e quindi figlio del peccato. Ma nella predicazione della Chiesa, Giovanni è soprattutto la “voce che grida nel deserto” delle nostre vite schiave del peccato.

Coraggio allora, perché “viene” anche questa domenica “un uomo mandato da Dio, il cui nome è Giovanni” per annunciarci che “Dio è misericordia”, secondo il significato del suo nome. Viene a noi che abbiamo smesso d’essere uomini ad immagine e somiglianza di Dio, per illuminare con il suo “no” di verità la menzogna del demonio.

Giovanni è immagine della Chiesa, che, come la luna, riflette la “Luce delle genti”, Cristo risorto dalla morte. “Viene a rendere testimonianza alla luce, perché possiamo credere per mezzo di lui” all’amore infinito di Dio che non ci abbandona alle nostre mafie, ma vuole “santificarci interamente”, per ridonarci in lui l’identità perduta.

Giovanni è qui a Betania, che è il nostro ufficio, la nostra scuola, la nostra casa: ci immerge nella misericordia che desta in noi l’umiltà. Giovanni ci indica Colui che il nostro cuore, da sempre, attende: l’amore capace di colmare ogni vuoto che ci portiamo dentro.

“Non lo conosciamo”, ma Gesù è l’amore straordinario che riempie l’ordinario. Solo chi ha compreso di non essere lui l’unico Sposo destinato alla sposa, può annunciarne l’avvento senza ipocrisia e gelosia. Giovanni afferma di sé di “non essere degno di slacciare il legaccio del sandalo”, riferendosi alla pratica del levirato, per cui colui che aveva diritto di sposare una donna gettava un sandalo per affermarlo davanti alla comunità.

Così ogni profeta e testimone, sia padre o madre, sia prete o religioso, è autentico solo se distoglie l’attenzione da se stesso per orientarla verso Cristo, l’unico Sposo a cui moglie e marito, figli e colleghi, parrocchiani e lontani, tutti sono promessi sin da prima dalla creazione del mondo. 

E così, nella verità di chi conosce se stesso e dall’esperienza di chi conosciuto ed esultato per l’amore di Cristo, possiamo annunciarlo a tutti, svelandolo nascosto nella vita di ogni persona, anche in quella più compromessa con il peccato. La nostra stessa vita, infatti, anche le nostre debolezze, perfino i nostri peccati saranno il segno che indicherà Gesù il Salvatore presente nella storia di ciascuno. Basta un po’ di umiltà, la Grazia donata a Giovanni di essere quello che era, e nulla di più.

E come è accaduto ogni giorno della storia sino agli estremi confini della terra, così anche oggi, “dopo” l’annuncio “viene il Messia”, ovvero lo Sposo, per unirsi alla sua Sposa. “Gioiamo pienamente nel Signore” allora, perché è preparato per noi il banchetto dove celebreremo le nozze, l’eucarestia che ci “riveste delle vesti battesimali di salvezza e con il mantello della giustizia”, perché “tutta la nostra persona, spirito anima e corpo, si conservi irreprensibile” e autentico “per la venuta del Signore”.

Non c’è più nulla da temere, anche se il capo dei capi cercherà di nuovo di riportarci nella sua famiglia: “Degno di fede è Colui che ci chiama, e farà tutto questo”. 

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Antonello Iapicca

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