Pietro e Paolo: nella loro storia possiamo leggere la nostra vita

Commento al Vangelo di domenica 29 giugno 2014 – Festa dei Santi Patroni di Roma

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«Dove c’è Pietro, lì c’è la Chiesa; dove c’è la Chiesa, lì non c’è affatto morte ma vita eterna» (S. Ambrogio). Pietro e la Chiesa. E, in essa, la vita, e la fine della morte. E’ questo il desiderio d’ogni uomo, il nostro desiderio d’oggi, il più profondo, il più intenso, l’anelito che freme insopprimibile in ogni parola, pensiero, azione. 

La vita e mai più nessuna morte. I peccati stessi gridano il nostro desiderio di felicità eterna, che si tramuta purtroppo in fuga da ogni sofferenza confondendo il piacere con l’eterno esistere a cui aspiriamo: “Io preferisco pensare che l’istinto sessuale sia un surrogato della religione e che il giovanotto che suona il campanello per cercare un postribolo, stia cercando Dio senza saperlo” (Bruce Marshall).

Anche le guerre, i divorzi, anche gli aborti, l’eutanasia e gli abomini genetici, la droga e il sesso sfrenato, e le nostre ore intrise di rabbia, malinconia, ribellioni e mormorazioni, le giornate rifugiate nel display di un tablet. 

Anche il gusto per il calcio e i mondiali, evaporato nel senso di frustrazione e vuoto percepito all’eliminazione dell’Italia, grida in noi il desiderio dell’eterno. Lo affermava il Card. Ratzinger quando spiegò il senso del gioco riferendosi alla Roma Antica: “la richiesta di pane e gioco era in realtà l’espressione del desiderio di una vita paradisiaca, di una vita di sazietà senza affanni e di una libertà appagata”.

Ed era “come se dicesse: guardate che, senza rendervene conto, perfino divertendovi a una partita della Nazionale in realtà con la bandiera della patria cercate la Patria perduta, cercate il Paradiso, cercate Dio” (Antonio Socci).

Non ci arrendiamo all’ineluttabile scorrere, v’è dentro un grido più forte di tutto, l’accorato appello lanciato ad una vita che sembra sorda ad ogni richiamo, che sfugge malvagia senza risposta. Tutti drogati di qualcosa o di qualcuno, sperando il cristallizzarsi, seppur effimero, d’un secondo almeno, un istante di tregua e di pace dove cullare le speranze deluse vissute solo in un sogno. 

Nella poesia “A Silvia”, Leopardi descriveva magistralmente i sentimenti che s’affastellano in noi:

“Questo è quel mondo? Questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte dell’umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano”.

Il “vero” che ci travolge anche oggi, in famiglia, con quell’atteggiamento di tua moglie, con la porta che ti sbatte in faccia tuo figlio, spalancandoti così “ignude tombe”, e dolori, e lacrime, e delusioni.

La vita, dunque, è come il cammino dei due discepoli di Emmaus, che avevano sperato in Gesù di Nazaret, profeta potente in parole ed opere; avevano riposto fiducia in Lui perché li liberasse dal giogo romano, immagine di ogni muro sul quale si infrangono le aspirazioni del cuore, e invece, anche Lui in una tomba da tre giorni. 

E le lacrime di Pietro, il tradimento e un amore strozzato nella paura di morire, nel terrore di fare la stessa fine atroce. Come noi, come ogni uomo, in Asia come in Europa, povero o ricco, uomo o donna, giovane o vecchio. Tutto infranto e i desideri ingoiati in una tomba, come quelle che si spalancano dietro ogni angolo delle nostre ore. 

Ma quella sera, all’imbrunire d’un giorno di paura, i chiavistelli della vita ben serrati, nella stanza d’una pasqua appena volata via, ecco d’improvviso apparire un volto incandescente di luce, una voce, un saluto di Pace che trapassa i muri e i cuori. La sua voce, il suo volto, le sue piaghe. E’ proprio Lui, lo dicono i segni del suo amore inchiodato su un legno. E la gioia esplode, incontenibile: in quel cenacolo, in mezzo a quel manipolo terrorizzato, che è scappato, che ha tradito, l’amore era deflagrato come una bomba, l’amore sperato nascosto in una vita più forte del peccato.

E Pietro era lì; la roccia, primo tra gli apostoli, il primo ad essere perdonato, il primato del perdono. La beatitudine di Pietro è un perdono che né carne e né sangue possono rivelare, perché viene dal sepolcro, ha attraversato l’inferno, e si è fatto dono gratuito e immeritato. Pietro, perdonato e per questo roccia e fondamento della Chiesa, capace di “legare” a Cristo i peccatori e “scioglierli” dal peccato, eternamente.

Con Pietro nella Chiesa si apprende l’amore perché il Buon Pastore ne guida il cammino. E’ Cristo, il Pastore incarnato nel pastore terreno che ci è donato. Pietro, e ogni papa, schiude le porte del Cielo offrendo gratuitamente a ogni uomo l’amore di Dio. 

Sulla soglia del mondo Pietro è garante e custode della fede incarnata qui ed ora; apre le porte della sua casa, la Chiesa dov’è vivo Cristo, e accoglie ogni uomo nelle viscere di misericordia di Dio, perché sia curato e rigenerato, e divenga cittadino del Cielo. 

Per questo, Pietro presiede nella carità un pugno di poveri uomini strappati all’inganno, il segno dell’unica speranza che Dio offre all’umanità. Conferma ogni giorno la nostra fede, quando siamo chiamati a darne ragione tra i sofismi e le menzogne del pensiero mondano.

Pietro saio tu ed io per le persone che ci sono affidate. Hanno bisogno d’essere presieduti nell’amore che abbraccia anche il nemico; ci chiedono, forse male, d’essere confermati nei passi malfermi sul cammino della conversione.

I tuoi cari, tuo marito, tuo figlio, tua suocera, i parrocchiani, gli amici, gli indifferenti, tutti sono in attesa della Chiesa che gli annunci e gli testimoni che il grido con cui reclamano una vita senza più la morte ha trovato risposta in Cristo crocifisso e risorto. E non hanno che te e me, in quell’istante, in quel luogo.

Dialogo, tolleranza, rispetto, tutto va bene per le umane, povere forze spese ad arginare il male. La casa di Pietro, però, – la nostra casa progettata e costruita a forma di croce – annuncia l’amore eterno, l’unica Pietra sul quale si infrange la potenza di ogni male. La Chiesa, infatti, è il luogo dell’impossibile che si fa possibile, come accadde a Nazaret nel seno della Vergine Maria.

Come accadde a San Paolo. Nella sua storia possiamo leggere la nostra vita. Era deciso, sicuro, religioso, zelante. Era tutto per Dio; per Lui era disposto ad incarcerare, e a uccidere. Come noi, al lavoro, in famiglia, con amici e vicini. 

Abbiamo la Parola di Dio dalla nostra, ne siamo certi, dobbiamo estirpare l’errore. Discussioni senza fine, polemiche, al bar, nella pausa pranzo, tra una lezione e l’altra, a cena la sera con consorte e figli. 

Indossata la corazza della nostra giustizia corriamo anche noi ogni giorno verso Damasco, recando lettere che ci autorizzano a gettare in prigione chi pretende di uscire dai nostri schemi. Anche in Chiesa, nelle comunità dove camminiamo per convertirci, nelle riunioni, nelle assemblee. Preti, laici, non v’è differenza, portiamo tutti la stessa armatura di certezze che abbigliava San Paolo.

Ma è accaduto l’imprevisto, e riaccade oggi. Qualcosa a cui Saulo non era preparato, come nessuno di noi. Qualcuno è apparso sul suo cammino e ha smontato le sue certezze. Un fatto, un avvenimento, un incontro. E inizia la conversione, la Teshuvà, il ritorno al vero, al bello, al buono, al santo. 

San Paolo ha incontra Cristo, più forte d’ogni sua ignoranza, d’ogni suo passato. Una scintilla d’amore ed è nata una creatura nuova; accompagnato dalla Chiesa piena di misericordia, quella che aveva sin lì perseguitato, comprende che tutto nella sua vita era orientato a quell’istante. 

Dio lo aveva preparato, misteriosamente, senza moralismi, salvaguardando ogni millimetro della sua libertà, accompagnando i suoi passi, permettendo che si impantanassero nell’ingiustizia, che combinassero guai e si lasciassero dietro una linea di sangue e di dolore. 

Dio ha avuto pazienza
, e lo ha atteso nel momento più virile della sua esistenza, laddove era lanciato verso il compimento d’una menzogna. E lì, sul selciato del suo cammino, lo ha amato e ricreato con un’elezione che lo generava in una missione che era l’opposto di quella a cui si era votato.

Nessun rimprovero, solo una luce ad illuminare il proprio nulla e subito un invio, una missione. La vita fantastica dell’apostolo delle genti sorgeva da lì, dal suo nulla. Sulla via di Damasco Paolo ha conosciuto la risurrezione di Cristo, capace di risuscitare anche la sua vita, di fare di un persecutore un perseguitato, di un determinato accusatore uno zelante annunciatore. 

I segni che accompagnano gli apostoli nella missione universale, per San Paolo hanno cominciato a compiersi in quel mezzogiorno che lo ha lanciato, con lo stesso ardore, con più zelo, sulle strade che aveva detestato, quelle dell’annuncio infaticabile del Vangelo.

Oggi appare anche a noi Cristo. Attraverso la predicazione della Chiesa, la liturgia di questa solennità, gli ammonimenti dei fratelli, il “perché” che ha fermato Saulo ci viene incontro nella situazione concreta che stiamo vivendo. Perché perseguitiamo il Signore, incarnato in nostra moglie, nei nostri figli, nei colleghi, nella suocera?

Perché abbiamo dimenticato Lui e il suo amore, seppellendo nella tomba degli inganni mondani la sua chiamata. Ma Lui ci viene incontro, ha avuto pazienza, la tenerezza che abbiamo sperimentato nella Chiesa, che non ci ha mai respinto, ma sempre risollevato, senza moralismi, senza esigenza. 

E fa di noi i suoi apostoli, lanciandoci in tutto il mondo, lavoro, scuola, casa, supermercato, parrocchia; e forse sino agli estremi confini della terra, come presbitero chissà, o tra le mura di un convento a pregare per ogni uomo, o formando famiglie sante che siano luce per i pagani, come San Paolo. 

Ci manda oggi laddove abbiamo combinato macelli con i nostri peccati, sui sentieri che abbiamo sporcato con le maldicenze, con i giudizi, con i compromessi, con le bugie, con le concupiscenze, con l’arroganza e la superbia. 

Ci invia come Pietro e Paolo, la nostra vita come un segno della sua misericordia, del Cielo che attende ogni uomo, perché tutti possano vedere, credere, e conoscere il Signore.

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Antonello Iapicca

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