La coscienza morale in gioco

Tre fatti tra cronaca e storia analizzati da mons. Bruno Forte nel suo editoriale su “Il Sole 24 Ore” di domenica 22 giugno

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Riprendiamo di seguito l’editoriale firmato da monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, pubblicato sull’edizione di domenica 22 giugno del quotidiano “Il Sole 24 Ore” (pp. 1 e 15). 

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Tre avvenimenti recenti, di natura molto diversa, mi inducono a proporre una riflessione che si muove fra cronaca e storia, volta ad evidenziare gli aspetti della coscienza morale che sono in gioco in essi e che riguardano ognuno di noi. Il primo è la terribile vicenda del giovane uomo di Motta Visconti che ha ucciso la moglie e i due figlioletti, confessando poi di averlo fatto perché li sentiva come una gabbia imposta alla sua libertà. Lo stesso assassino sembra abbia invocato – al termine della sua confessione – il massimo della pena per sé, mostrando di avere almeno un barlume di consapevolezza della gravità del male compiuto. Molti hanno parlato di un “raptus” di follia omicida, anche se lo stesso autore del delitto ha riconosciuto la premeditazione del gesto.

L’atrocità del fatto suscita un’immensa pietà verso le vittime, ponendo al contempo la domanda su come sia stato possibile che nella coscienza di una persona all’apparenza normale abbia potuto maturarsi un simile proposito e farsi strada la lucida e assurda realizzazione di esso. Interrogativi come questo non trovano facili risposte: soprattutto non devono far spazio a giudizi sommari, tanto in senso colpevolista, quanto in direzione della pietà che lo stesso carnefice suscita per aver distrutto con le proprie mani i beni più preziosi della propria esistenza. Un aspetto emerge tuttavia da questa vicenda, e cioè l’immane potenzialità del male che ogni essere umano è capace di compiere, e con essa quella linea d’ombra fra luce e tenebra in cui si muovono le scelte del nostro libero arbitrio.

Un genio del pensiero quale Immanuel Kant definiva “male radicale” questo magma che si agita nell’abisso del cuore: l’enigma che esso pone è talmente grande, che il Filosofo dell’autonomia morale pervenne su questo punto alla confessione di un’ambiguità strutturale originaria, riconoscibile nell’uomo: “Potremo chiamarla una tendenza naturale al male, e, poiché è necessario che essa sia sempre colpevole per se stessa, potremo definirla un male radicale, innato nella natura umana (ma, nondimeno, un male che ci siamo procurati da noi stessi)” (La religione entro i limiti della sola ragione, Laterza, Roma-Bari 20005, 101).

Poiché, però, Kant ritiene che “il fondamento del male non può trovarsi in nessun oggetto che determini l’arbitrio mediante inclinazione, e dunque in nessun impulso naturale, bensì soltanto in una regola stabilita dall’arbitrio a se stesso per l’uso della propria libertà” (75), l’origine del male non può venire dal di fuori dell’uomo e va cercata nell’abisso stesso della sua libertà. Come sottrarsi, allora, all’esercizio malvagio di questa libertà? È impressionante che Kant dia la stessa risposta che il pensiero cristiano ha proposto nel suo sviluppo storico: “Facienti quod est in se Deus non denegat gratiam” – “Dio non nega la grazia a chi fa quanto dipende da sé”.

Ovvero, con le parole del grande Filosofo: “L’uomo che, animato da una sincera intenzione verso il dovere, fa tutto il possibile per adempiere ai propri obblighi… può lecitamente sperare che quanto non è in suo potere verrà in qualche modo completato dalla saggezza suprema” (391). L’abisso del male invoca, insomma, l’abisso della Grazia! Proprio così, la risposta kantiana fa sentire ancora di più la vastità del dramma che emerge in quegli atti dove il male assoluto si affaccia: se la libertà dell’artefice umano non è negata, quella del soccorso dall’alto o è stata rifiutata o non c’è. Ateismo e fede si confrontano sugli scenari sconvolgenti di quest’alternativa. Il male chiama in causa al tempo stesso la dignità dell’uomo e l’esistenza di Dio.

Sia pur in termini più temperati, la lotta fra male e bene si affaccia in altri tristissimi fatti di cronaca degli ultimi tempi: mi riferisco alla corruzione e al latrocinio che sono emersi dalle inchieste sulla realizzazione di opere che avrebbero dovuto essere fiore all’occhiello dell’iniziativa pubblica e dell’imprenditoria del nostro Paese. Si tratta da una parte degli scandali connessi a Expo 2015, dall’altra delle tangenti pagate ai corrotti nelle opere relative al Modulo Sperimentale Elettromeccanico, progettato per la difesa di Veneziae della laguna dalle acque alte.

È perfino incredibile che personaggi potenti, cui non mancava nulla, abbiano mostrato un’avidità speculare all’estendersi del loro potere. Anche qui viene da chiedersi come sia stato possibile che l’ostentazione di pubbliche virtù e la dichiarata volontà di servizio al bene comune potessero collegarsi così sfrontatamente con la voracità di guadagni facili e smisurati.

È il tarlo della corruzione, male dagli effetti devastanti: la corruzione “uccide”, ha affermato Papa Francesco in diverse occasioni. Essa è “il peccato a portata di mano, che ha la persona che ha autorità sugli altri … e si sente potente, si sente quasi Dio”. Se la corruzione è a portata dei potenti, il suo costo lo pagano i poveri: “Pagano gli ospedali senza medicine, gli ammalati che non hanno cura, i bambini senza educazione… La corruzione viene pagata dai poveri” (Omelia del 16 Giugno a Santa Marta).

La cecità del corruttore e del corrotto sta nel mettere al centro della propria azione unicamente se stesso e il proprio interesse, sacrificando come irrilevanti le esigenze del bene comune. L’abisso del male si rivela qui nel suo volto più sconcertante: quello dell’accessibilità, dell’apparente naturalezza, della sua “banalità”, secondo la definizione della pensatrice ebrea Hannah Arendt, creata in riferimento alla barbarie nazista (La banalità del male, Feltrinelli 2003). Il male chiama in causa la responsabilità verso gli altri e tocca i fondamenti di ogni convivenza civile.

Un terzo evento accaduto nelle ultime settimane, precisamente l’8 Giugno, può aiutarci a riconoscere alcune prospettive di luce e di speranza riguardo alla vittoria del male, che sembra devastare le coscienze e dominare la scena della storia: è l’incontro di preghiera promosso in Vaticano da Papa Francesco con la partecipazione dei Presidenti di Israele e della Palestina, Shimon Peres e Abu Mazen.

Il valore unico di quest’avvenimento sta nel cambiamento di prospettiva che esso introduce rispetto a ogni precedente ricerca “ufficiale” della pace in Medio Oriente: il Vescovo di Roma non ha deresponsabilizzato nessuno rispetto al dovere di lavorare per la pace e di combattere e vincere il male dell’odio che avvelena tutti, ricordando che “per fare la paceci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra. Ci vuole coraggio per dire sì all’incontro e no allo scontro; sì al dialogo e no alla violenza; sì al negoziato e no alle ostilità; sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni; sì alla sincerità e no alla doppiezza”.

Il fatto, poi, che l’incontro sia stato proposto e realizzato come momento di preghiera all’unico Dio di tutti i credenti, introduce quel cambio di piano di cui c’era e c’è immenso bisogno: mettersi insieme al cospetto dell’Eterno vuol dire riconoscere i propri limiti e la propria debolezza, misurare il bene della pace da cercare non solo sul proprio interesse, ma su quello di tutti, e specialmente dei poveri, e impegnarsi nella profondità della propria coscienza davanti al giudizio ultimo, cui nulla sfugge, a essere costruttori di un mondo più giusto per tutti.

Se gli scenari del male, tanto nel privato degli individui e delle loro relazioni più strette, quanto nella scena pubblica e nel vasto mondo dei conflitti di popoli e nazion
i, sollevano le domande più radicali sugli uomini e il loro destino ultimo, se provocano a considerare le responsabilità di ciascuno riguardo al bene di tutti, essi evidenziano anche l’urgenza di individuare vie possibili per vincere il male e vivere l’audacia del bene: l’imperativo morale assoluto, riconducibile alla voce della coscienza, e il suo fondamento trascendente, che i credenti riconoscono nel giudizio di Dio, sono le vie da riscoprire e riproporre sempre di nuovo, a tutti e in ogni occasione possibile, perché sulla disumanità vinca l’umanità dell’uomo e sulla seduzione del male la forza alla fine vittoriosa del bene, fatto sotto lo sguardo di Colui che vede nel segreto, su cui tutti siamo e saremo misurati in vita e nella serietà senza alibi del giudizio nell’ora della nostra morte. 

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Bruno Forte

Arcivescovo di Chieti-Vasto

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