Siamo all’epilogo del grande discorso di Gesù nella Sinagoga di Cafarnao. Alle sue parole i Giudei cominciano a “litigare” tra di loro, secondo l’originale greco reso con “discutere”. Quell’Uomo che si definisce l’unico pane di vita, e indica nella sua stessa carne la vita eterna suscita uno scuotimento interno, e, soprattutto, obbliga a prendere posizione.
Le parole di Gesù urtano con la durezza dei cuori, con l’ostinazione delle menti, con le difese della carne. Ed è un urto violento, che spazza via l’ipocrisia e denuda, polverizzando le consuetudini borghesi, le alienazioni, le idolatrie, le false certezze dove l’uomo tenta, goffamente, di installarsi.
Per questo i Giudei si mettono a litigare: è una forma di difesa, di cercare giustificazioni, come ha fatto il Popolo di Israele nel deserto, quando, dopo aver mormorato per la carne, comincia a litigare e ad accusare Mosè reclamando acqua per non morire di sete. Si accapigliano tra loro e se la prendono con il capo, ma in realtà stavano dirigendo i loro strali a Dio.
Così nel Vangelo. I Giudei litigano tra di loro ma in fondo è la resistenza che oppongono alle parole di Gesù, e a Lui stesso. Sono scandalizzati dalla sua carne. Credono di conoscerlo, lo hanno visto crescere, sanno tutto della sua famiglia, Lui è una storia esattamente uguale alla loro, non può salvarli, quella carne è carne come la loro, non può dare la vita.
I loro occhi, i pensieri, i cuori si arrestano alla superficie delle cose, come Eva che fu ingannata proprio dagli occhi che si fissarono sull’apparenza del frutto, e non ebbero la capacità di trapassarne la buccia. E, come lei che disobbedì a Dio, essi rigettano Gesù.
Appare in filigrana il rifiuto patito dal Signore a Betlemme, dove per Lui non v’era posto in nessun albergo. Quella mangiatoia era una profezia che annunciava il destino e la missione di Gesù: su questa terra, infatti, il Signore non avrebbe avuto un posto dove reclinare il capo, se non sulla Croce e nel sepolcro.
Per questo, nella Solennità del Corpus Domini, la Chiesa presenta il rifiuto patito da Gesù: è la nostra realtà, dalla quale derivano le incomprensioni, le liti, i divorzi, le guerre, l’avidità, l’avarizia e l’egoismo che ci impediscono di donarci e far parte dei nostri beni i poveri e gli stranieri.
E così moriamo nell’orgoglio che lascia fuori Dio e i fratelli. Ma Gesù ci conosce. Sa che soffriamo non perché siamo senza lavoro, o il fidanzato ci ha lasciato, o una malattia ci sta consumando. Queste sono sofferenze che non avrebbero il potere di toglierci la pace. Soffriamo a causa dei nostri peccati, che hanno tutti origine dalla stessa superbia che ha fatto precipitare fuori dal Paradiso Adamo ed Eva e ha fatto dubitare i Giudei sul “come” fosse possibile che Gesù “desse la sua carne da mangiare”.
Non avevano compreso che erano affamati perché non avevano più cibo per le loro anime, come il figlio prodigo perduto e morto. Non potevano credere al mistero del “come” in quanto non erano interessati al “perché” Gesù doveva “dare la sua carne”. Erano così ingannati e induriti che non pensavano d’aver bisogno di quell’alimento.
Invece tutti abbiamo bisogno della sua carne, e non c’era che un solo “come” attraverso il quale poteva darcela. Era, infatti, necessario, che il corpo di Gesù, identico a quello di tutti noi, fosse ferito e trascinato nella morte per riscattare il nostro e introdurlo nel Paradiso che avevamo perduto.
Ecco perché il corpo del Signore ha dovuto essere adagiato in una mangiatoia nel mezzo di una stalla sporca e maleodorante.
Ecco perché la sua carne ha dovuto subire i tormenti della Passione, le trafitture dei chiodi ed essere appesa su una Croce, il supplizio peggiore che ci fosse.
Ecco perché il suo corpo ha dovuto essere disteso in un sepolcro nuovo, dove nessuno era stato mai sepolto. Ecco perché ha dovuto essere chiuso nel buio senza speranza dietro a una pietra.
Per questo Gesù risponde ai Giudei affermando che chi non mangia la sua carne e non beve il suo sangue offerti per il perdono dei peccati, non può avere in sé la vita. Chi resta ancorato ai propri schemi, chi si chiude ostinatamente alla grazia non si accorge di quello che è celato sotto le apparenze, non vede e non riconosce nei segni ciò che vi è significato e non può accogliere il perdono.
Per illuminarli e chiamarli alla conversione dell’umiltà, Gesù afferma che i padri hanno mangiato la manna ma sono morti, hanno cioè continuato a mormorare e non sono entrati nella Terra Promessa. Non basta essere Giudei per essere salvi, come non basta essere battezzati per avere in noi la vita eterna. Essa ci è donata certo, ma è un seme che deve essere curato e alimentato per crescere e dare i frutti di un’esistenza santa nell’amore oltre la morte.
Un po’ come la manna, che era anch’essa il seme del “pane vero” che Dio avrebbe dato dal Cielo; un segno profetico di quello che Dio avrebbe compiuto per ogni uomo: nella marcia attraverso il deserto delle tentazioni, avrebbe provveduto in modo definitivo, compiendo quanto profetizzava quella polvere bianca che il Popolo non conosceva.
I Giudei conoscevano le Scritture, ne erano gli orgogliosi custodi, e avrebbero dovuto capire che di nuovo Dio aveva deposto dinanzi al loro sguardo un cibo che non conoscevano! Ed era proprio quel loro concittadino, carne della loro carne per salvare la loro carne, ma che gli era sconosciuto.
Quel giorno a Cafarnao accadde come nel deserto di Sin durante la marcia dell’esodo: “evaporato lo strato di rugiada, apparì sulla superficie del deserto qualcosa di minuto, di granuloso, fine come brina gelata in terra. A tal vista i figli d’Israele si chiesero l’un l’altro: «Che cos’è questo?» perché non sapevano che cosa fosse. E Mosè disse loro: Questo è il pane che il Signore vi ha dato per cibo” (Es. 16,14-15). I Giudei avrebbero dovuto abbandonarsi allo stesso stupore dei loro padri; di fronte a Gesù che, con le sue parole identiche a quelle di Mosè, aveva fatto “evaporare lo strato di rugiada” che nascondeva il mistero celato nella sua umanità, chiedersi umilmente “chi è davvero costui?”, accettando di non conoscerlo.
Ma avevano il cuore indurito, cercavano la gloria gli uni dagli altri, non potevano “vedere la gloria di Dio” che Gesù, nuovo Mosè, aveva loro annunciato; non erano capaci di accogliere “la risposta” d’amore ai loro peccati che Dio gli offriva attraverso la carne di Gesù, la manna autentica e incorruttibile. Avrebbero dovuto solo obbedire e prendere le due razioni come fecero i loro padri il venerdì, immagini delle due nature di Cristo, quella umana come la loro, e quella divina, come il Padre.
Gesù, infatti, era il compimento del segno dato da Dio nel deserto. Lui era il cibo che li avrebbe saziati introducendoli nel giorno del riposo, l’ottavo giorno della risurrezione che ha rivelato l’incorruttibilità di quel pane fatto carne nella carne vittoriosa di Cristo. Offrendola come cibo li avrebbe riscattati e uniti indissolubilmente alla sua natura divina, facendo di loro dei figli di Dio!
Sì, Dio avrebbe liberato i suoi figli dalla prigione del peccato, avrebbe aperto i loro occhi sulla verità, il suo amore infinito celato in ogni istante della storia, come Lui si sarebbe nascosto nella carne del Figlio “inviato” per mostrare come si “vive per mezzo del Padre”.
Anche Gesù, infatti, ha vissuto nella debolezza della carne grazie alla vita divina; e per questo ha potuto vivere ogni istante per il Padre, facendo sempre tutto quello che piace a Lui. Il suo corpo l’ha custodita sin sulla Croce, sin dentro alla tomba, per lasciarla esplodere vittoriosa sulla morte. Per questo nel Corpus Domini, nella carne di Cristo, s’è compiuta la vera e definitiva liberazione.
Con Lui ogni uomo può entrare nella Terra Promessa, dove, dal giorno dell’ingresso in essa del Popolo di Israele, era cessata la manna. A Canaan,
infatti, potevano saziarsi dei suoi frutti; così, chiunque si ciba del Corpus Domini non ha più fame né sete, perché Lui è il vero alimento, quello che non si esaurisce nella morte, che sazia anche quando non vi sono consolazioni umane, il pane del Cielo, primizia del banchetto preparato nel Regno eterno del Padre da gustare sulla terra.
Al Corpus Domini ogni figlio di Adamo può attingere per “vivere per mezzo di Gesù” e non vedersi più morire. Con Lui possiamo compiere l’esodo definitivo: dall’Egitto che tutti sperimentiamo, dove siamo obbligati a fabbricare mattoni per issare piramidi al nostro ego, senza accorgerci che sono invece i sepolcri dove seppelliamo la felicità, nutrendoci della sua carne e del suo sangue, siamo condotti alla terra della libertà, dove scorrono il latte e il miele dell’amore e della comunione, con Dio e i fratelli.
Per questo, la carne di Gesù è il pane della fretta, dell’urgenza di salvare il tuo matrimonio, di liberare tuoi figli dai tentacoli del mondo, di strappare ogni uomo dalle mani del demonio. La carne di Gesù, infatti, è quella del vero Agnello che ha tolto i peccati del mondo, quello che nella Pasqua si offriva al Tempio.
Anche il suo sangue compie ciò che profetizzava quello dell’agnello che ha protetto i figli di Israele dall’angelo della morte nella notte della Pasqua: il suo è ora sparso sugli stipiti delle porte delle nostre case, delle nostre menti, dei nostri cuori, per difenderci dagli attacchi del demonio. Il sangue di Gesù è il frutto delizioso del Regno eterno, la sua primizia che gustano i figli della Chiesa, il segno della gioia che sperimentano coloro che sono risorti con Cristo.
Per questo la carne e il sangue di Gesù sono alimento e bevanda veri, degni di fede; attendono solo il nostro Amen. Non hanno bisogno di spot pubblicitari, perché la tua vita salvata e gioiosa pur nelle difficoltà ne è l’immagine più credibile. La vita dei cristiani che, nutrendosi del corpo e sangue di Cristo, sono trasformati in Lui.
Celebrare e contemplare oggi il Corpus Domini è, concretamente, sfamarsi e dissetarsi di Cristo, per sperimentare di non avere più fame di affetto e stima, di soldi e idoli, né sete di lodi e attenzioni. Nel Corpo del Signore siamo attratti e saziati per dimorare in Lui, e, con Lui, dimorare in Dio.
L’eucarestia ci spinge ad aprirci al Mistero celato in Gesù, per accoglierlo umilmente e imparare così a dimorare, istante dopo istante, nel cuore di Dio. Come Giovanni, il discepolo amato, “colui che giacque sopra ‘l petto del nostro Pellicano, e Questi fue di su la croce al grande officio eletto” (Dante, Paradiso, XXV, 112-114).
Abbandonati sul petto di Gesù squarciato per amore, possiamo nasconderci nelle sue ferite quando imperversa la battaglia con la concupiscenza e le tentazioni, e discernere, da quelle profondità d’amore, in ogni uomo, anche nel nemico, anche nel più grande peccatore, i lineamenti inconfondibili del Signore. Dal Mistero di Gesù al mistero celato in ogni uomo, anche questo ci annuncia la Solennità che celebriamo.
Allora, dimorando in Lui, non potremo resistere al fuoco dello zelo che ha infiammato il cuore di Gesù. Anche il nostro corpo, come il suo, arderà di gelosia per ogni pecora perduta, il coniuge, il figlio, l’amico, il collega, il vicino di casa. E per loro saliremo ogni giorno sulla Croce con Cristo per entrare, insieme a chi ci è accanto, nella vita eterna.
Se il suo Corpo che oggi celebriamo solennemente siamo noi, se lo lo è la sua Chiesa, allora significa che anche la nostra povera e debole carne, il nostro sangue immagine della nostra vita troppe volte perduta in passioni effimere, sono presi dalle mani di Gesù e trasformati, per mezzo dello Spirito Santo, nella sua carne e nel suo corpo. Infatti, “per la carità, che custodisce chi beve al calice del Signore, ci viene dato di essere veramente quello che misticamente celebriamo in modo sacramentale nel sacrificio” (San Fulgenzio di Ruspe).
Significa che ogni giorno siamo anche noi adagiati sull’antimension, il corporale usato dalla Chiesa ortodossa sul quale è ricamata la deposizione di Gesù, fatto di puro lino perché, come dicevano i Padri, il lino viene dalla terra come la tomba del Signore. Anche oggi saremo deposti nelle mani dei fratelli, anch’essi fatti di terra e precipitati nel sepolcro, perché nelle nostre attitudini, nelle parole e nei gesti, possano riconoscere il corpo del Signore deposto nella loro vita.
Anche per noi è preparato un tabernacolo dove dimorare con il Signore e vivere per Lui nella storia di ogni giorno. In essa vi è un’altare sul quale è pronto un ostensorio dove essere crocifissi con Cristo, perché, come accadde a Santo Stefano, chi ci guarda possa vedere in noi gli angeli che, offrendo il proprio corpo divenuto una sola carne con Cristo, annunciano l’amore di Dio.
Contempliamo e adoriamo il Corpus Domini allora, e vi troveremo la nostra vita: quella passata redenta, quella presente e quella futura come un dono d’amore per ogni uomo.