Da Gerusalemme a Roma per la pace

Pietro e Andrea, ritornati alla Città Santa, vi hanno ritrovato gli altri discendenti di Abramo, che ora li visitano nella capitale della cristianità

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Tra i molti gesti significativi compiuti dal Papa a Gerusalemme, ce n’è stato uno che ha colpito in modo particolare l’immaginario collettivo, essendo compiuto per la prima volta: l’omaggio alla tomba di Theodor Herzl, il fondatore del Sionismo.

Questo grande giornalista e pensatore politico originario dell’Ungheria fu mandato nel 1897 dal suo giornale di Vienna a seguire il processo contro il capitano Drayfus, che si svolgeva in quel tempo a Parigi.

L’intuizione di Herzl nacque da una constatazione giusta ed una sbagliata: indubbiamente, il nazionalismo dilagante in Europa alla fine dell’ 800 portava in sé le radici di un nuovo antisemitismo, non più nutrito dell’intolleranza religiosa propria del Cristianesimo, bensì dalla tendenza a omologare le identità etniche poste alla base degli stati nazionali.

Il merito di Herzl consistette dunque nel prevedere in un certo qual modo la tragedia dell’Olocausto e nell’indicare come via di salvezza per il suo popolo la creazione dello “Juden Staat”, lo Stato degli Ebrei.

Era invece sbagliata l’idea secondo cui se vi era un popolo senza terra, vi era anche una terra senza popolo, precisamente quella appartenuta un tempo a Israele: è indubbio infatti che essa avesse degli abitanti, anche se – diversamente dagli Ebrei – non possedevano ancora l’autoscienza necessaria per esercitare l’autodeterminazione.

E’ curioso pensare come Herzl e gli altri sionisti non fossero dei praticanti, e probabilmente non fossero neanche dei credenti: la loro rivendicazione era essenzialmente nazionalistica. Tuttavia l’esito storico del Sionismo, che avrebbe dato ragione all’intuizione originaria in quegli stessi termini di tempo, cioè cinquant’anni, stabiliti da Herzl passando per visionario, non si spiega senza il richiamo rituale della religione israelitica, ripetuto ad ogni inizio di anno: “L’anno prossimo a Gerusalemme!”.

Né mancò di avere influenza l’altro richiamo biblico: “Che mi si secchi la mano destra, Gerusalemme, se ti dimentico! Che mi si attacchi la lingua al palato, Gerusalemme, se ti dimentico!”.

Il gesto del Papa che rende omaggio alla tomba di Herzl non ha comunque un significato religioso, ma ne ha uno per così dire politico, in quanto s’inquadra nel riconoscimento dato dalla Chiesa a tutto il movimento di emancipazione dei popoli.

A questo movimento anche gli Ebrei hanno partecipato, scontrandosi con maggiori difficoltà rispetto alle altre nazioni in quanto essi non vivevano più nei luoghi in cui intendevano edificare il proprio stato.

Se però la loro rivendicazione veniva trasposta dal piano politico al piano religioso, la difficoltà di realizzarla diveniva possibilmente ancora maggiore.

Quando a Giuseppe viene rinnovata la promessa della sua terra, già fatta da Dio ad Abramo, ed egli vede in sogno una scala che partendo da essa giunge fino in cielo, esclama: “Terribilis locus est iste!“.

La terra promessa è in quanto tale un luogo terribile, perché il suo possesso è destinato a suscitare invidie e contese tra le genti.

E qui dobbiamo affrontare il discorso del significato che Gerusalemme ha per i Musulmani, in quanto loro terzo luogo sacro, santificato dal viaggio intrapreso dal profeta Maometto verso il Paradiso, iniziato proprio dalla Spianata del Tempio.

Allora arriviamo alla domanda fondamentale che ha aleggiato sugli incontri del Papa a Gerusalemme con gli Israeliti e con i Musulmani: la trasposizione del conflitto dalla contesa tra due nazionalismi contrapposti a due ragioni spirituali altrettanto contrapposte e apparentemente inconciliabili rende più facile o più difficile la ricerca della pace?

Da quando l’Occidente conosce il terrorismo islamico, che ci colpisce perché identifica in noi Cristiani i “Crociati” alleati dei Sionisti, verrebbe da pensare che la soluzione del conflitto è divenuta oggi più difficile.

Né possiamo trascurare il fatto che certi nostri atteggiamenti hanno contribuito a determinare questo esito: Gerusalemme non è perduta per i Musulmani nel 1948, quando si fonda lo Stato di Israele, né nel 1967, con la sua unificazione, bensì fin dal 1918, quando vi entra il generale Allenby, il quale non esita a dichiararsi l’erede dei Crociati.

E allora ecco che il nostro contributo alla pace, offerto dal Papa e dal Patriarca, ha il significato di una riparazione.

Esso assume però anche un altro valore: la pace che si cerca è quella di Abramo, cioè la pace di Dio. Dio si rivela al nostro Padre comune come persona: una persona collocata certamente nella trascendenza, ma che interviene nella storia per guidare l’umanità verso le mete che Egli ha stabilito.

La pace si ricerca cogliendo la teleologia della storia, comprendendo il suo significato di cammino dell’umanità, guidata dalla Rivelazione, verso la visione di Dio.

Ecco allora perché la pace si deve cercare nella preghiera, prima che nel negoziato: il negoziato può essere un dialogo tra sordi, ma Dio non è mai sordo alle nostre invocazioni, e in quanto misericordioso è sempre pronto ad esaudirci. La pace sarà dunque il risultato del compimento della Rivelazione, il disvelamento – questo significa Apocalisse – del disegno in cui Dio inserisce la nostra storia, della meta a cui Egli ci conduce.

Se il ritorno degli Ebrei a Gerusalemme è provvidenziale in quanto segna quella fine delle genti cui Gesù ricollega la restaurazione di Israele, la fine della profanazione pagana di Gerusalemme, la fine del nuovo esilio del popolo dell’Alleanza, anche l’opera svolta da Pietro e da Andrea nel portare alle genti la fede nell’unico Dio assume in questa prospettiva un significato che non può più essere ritenuto ostile per gli Israeliti.

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Alfonso Maria Bruno

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