Io non sono morto. Lapalissiana affermazione: digito lettere su questa tastiera, “agisco” proprio perché ovviamente non sono morto. Ma scrivendola, tremo, pensando che questo articolo potrà stare sotto i vostri occhi quando io sarò morto: perché io morirò, è certo. Sento quindi, per amore di verità, di dover aggiungere alla frase d’inizio un semplice avverbio: io non sono morto ancora.
Il morire è proprio di ogni vivente. E’ insito nella biologia: cellule, piante, animali smettono di vivere e si corrompono. Periscono. Ma l’uomo muore in un senso più profondo, di una morte propriamente umana. Questo perché l’uomo è persona e vive in una drammatica situazione “di frontiera”, con un piede nel tempo ed uno per così dire nell’eternità. In quanto persona “ho” un corpo e, proprio come ogni corpo vivente, un giorno morirò. Al tempo stesso però “ho” uno spirito, che mi consente di conoscere questo: sono mortale e so di esserlo.
La morte ci sbatte contro come un assurdo che può rendere l’intera vita un’assurdità: «perché?», emerge esplosiva la domanda sul fine e sul senso.
In più, finché vivo, del morire avverto i morsi. Quelli che erodono il tempo, che passa e non mi è più restituito; quelli che dilaniano il corpo nell’esperienza della malattia; e quelli che mi amputano affetti, nell’esperienza della morte delle persone care. Se è assurdo che io debba morire, è altrettanto drammatico che debba morire il “tu” che mi sta accanto.
Dal confronto “vita-morte” e “amore-morte” sembriamo uscire due volte sconfitti. Assistiamo così a molti “umanissimi” tentativi di rimuovere questa umanissima realtà: mascherandola, ultimo tabù del nostro tempo, nelle parole; nascondendola alla vista, in stanze inaccessibili di ospedali o nell’utero materno; alle volte dominandola illusoriamente con una iniezione letale; alle volte quasi prolungandola, ostinandosi in un accanimento che non ha nulla più di umano né tantomeno di terapeutico.
Pensiamo di ingannare la morte, ma, in verità, inganniamo noi stessi, scimmiottiamo l’amore e falsifichiamo la nostra e l’altrui dignità: con la bara non si bara…
Il gioco di parole consente di introdurci in una metafora che potrà darci una diversa chiave di lettura di quanto esposto finora. Se la vita è la partita che sto giocando, la morte non è un estraneo che viene inaspettato a interrompere e a rovinare il gioco, piuttosto è nelle regole stesse del gioco. E se fa parte delle regole, la morte non è una sconfitta ma parte integrante del gioco, che posso quindi comunque vincere, pur morendo. Le carte ad un certo punto finiscono, il gioco non dura per sempre, eppure, anzi proprio per questo, si vince o si perde.
La vittoria non è vivere infinitamente ma vivere pienamente. L’alternativa è la sconfitta di una vita non autenticamente umana, un fallimento purtroppo possibile.
La morte, pertanto, può essere letta come una dimensione presente nell’esistenza umana che, se accolta, può orientare la vita nella giusta direzione: nella fine, il fine.
Abbiamo tutta la vita per imparare a morire e sappiamo di morire per imparare a vivere, per imparare l’amore autentico: quello che non nega l’altro ma lo accoglie e lo accompagna, anche quando quest’altro, morendo, farà morire in un certo senso anche noi.
Questa esperienza di accompagnamento dell’altro anche nella sua terminalità è l’esperienza delle famiglie e dei medici dell’associazione La Quercia Millenaria ONLUS.
Essa aiuta in particolare le mamme che sanno di dare alla luce un bambino che, avendo ricevuto una diagnosi di “feto terminale”, è incompatibile con la vita. Come i piccoli Santi Innocenti, che abbiamo da poco celebrato, anche questi piccoli con la loro morte precoce danno testimonianza alla verità, cioè che l’amore esiste e l’amore ha vinto la morte.
In un’epoca che, come detto, tende a rimuovere il morire, il morente ed il sofferente, la Quercia Millenaria svolge un ruolo profetico, contro l’idolatria del “figlio perfetto” e il tabù della morte. Madri e padri semplici che ci insegnano con semplicità a non avere paura, perché anche il morire può diventare un evento da vivere, un’occasione che trasforma l’esistenza in vita piena.
In questa accoglienza dell’altro, fragile e terminale, queste famiglie testimoniano che hanno tutte ricevuto più di quanto hanno saputo dare.
In questa apertura all’altro, piccolo e morente, si riflette l’apertura all’Infinitamente Altro, quel Dio Trinità di Amore da cui le famiglie imparano ad essere una comunità di amore.
Ecco dunque la risposta all’assurdo del morire. Come ricorda la lettera agli Ebrei, letta poco prima di Natale, «un corpo mi hai preparato», e sebbene sia un corpo fragile, un corpo morente, è con questo corpo che io posso compiere la volontà di Dio.
La conclusione sembra così paradossale. L’accompagnamento di un neonato senza speranza restituisce speranza all’intera società; l’accoglienza di un bambino dal volto apparentemente inumano rende più umano il volto della nostra mortale umanità.
Massimo Losito è docente presso Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma e consigliere del Direttivo de La Quercia Millenaria Associazione Onlus.
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