Suor Rachela Fassera è stata la preside della scuola femminile di Aboke dove il Lord Resistance Army (Lra), rapì 139 ragazze la notte del 10 ottobre 1996. Su quella storia sono stati scritti un’infinità di articoli e un libro (Le ragazze di Aboke, di Els De Temmerman), ma ancora non tutto il valore di quella vicenda è stato messo in evidenza. Ho incontrato la missionaria comboniana due volte, la prima in Italia e la seconda sul posto, ad Aboke.
L’impressione è stata sempre travolgente. È impossibile ascoltare la sua storia senza che ti salga un groppo alla gola. E quando, con la sua voce monotona e lo sguardo sofferente, racconta il momento decisivo, quello della crudele cernita fra chi poteva tornarsene a casa e chi doveva restare in schiavitù coi guerriglieri, pare di sentire le voci delle sfortunate, delle sue ragazze che la implorano di salvarle.
Ma la chiave di comprensione della storia non è la pena per le ragazze e le migliaia di bambini e bambine – 25 mila secondo alcune stime – che negli anni sono stati rapiti dagli uomini di Joseph Kony, feroce comandante de Lra, né l’ammirazione per il coraggio di suor Rachele, eroina capace di infondere religioso terrore nei ribelli foschi e crudeli. Niente di tutto ciò: Rachele è un essere fragile e tremante, una piccola donna dai lineamenti depressi, che nemmeno la fantasia più fervida potrebbe immaginare intenta in atti di eroismo.
Come dice lei con sincerità disarmante: «Ho fatto e faccio cose che non avrei mai immaginato di avere la forza di fare». E aggiunge: «È Dio che le fa attraverso di me». Il senso della sua vicenda è proprio in questa trasformazione, quasi trasfigurazione, inaspettata, dell’umano. Per Rachele il miracolo è diventato realtà: l’insegnante trincerata dietro le regole del rapporto gerarchico ha lasciato il posto alla madre investita di un’intensa maternità vissuta, la suora tentata dal formalismo di una vita religiosa indossata come una maschera rassicurante alla donna consacrata che sperimenta secondo una misura drammatica il compiersi della sua vocazione, l’estraneità alla condivisione. Ma perché tutto questo fosse possibile, era necessario un fatto, un avvenimento ricco di grazia nel momento stesso in cui si manifestava come disgrazia, una nascita nuova. Così è stato.
È notte sugli altopiani dell’Uganda settentrionale. I guerriglieri avanzano nel buio come una processione di spettri, come ombre felpate. Circondano i dormitori delle ragazze della scuola. Trovano tutte le porte sbarrate con pesanti chiavistelli, e allora scardinano pazientemente un grande finestrone. Fanno finalmente irruzione e ordinano alle studentesse di vestirsi e seguirli. Ne portano via 139, tutte fra i 13 e 16 anni di età. «Quando ho visto la breccia nel muro, ho detto a suor Alba: “Io li seguo”. Lei non mi ha trattenuto: “Va’, Rachele”. Ho chiesto a Jean Bosco, un nostro insegnante, di seguirmi. Ha risposto: “Sì, andiamo a morire per le nostre ragazze”.
Alle 7 di mattina eravamo già in viaggio. Alle 10 abbiamo agganciato la retroguardia dei guerriglieri. Quando li ho visti mi si è seccata la saliva in gola. Ci scrutavano guardinghi con le dita sui grilletti delle armi spianate. Mi hanno portata da Laghira, il loro comandante». Laghira, nome di battaglia di uno dei capi ribelli, è l’uomo che ispira terrore in tutta la regione.
Tutti conoscono le sue efferatezze: rapisce bambini per farne dei soldati, ragazzine per darle in mogli a ufficiali e sottufficiali; ordina torture come tagliare il naso, orecchie e natiche ai contadini che disobbediscono agli ordini dell’Lra; ordina a bambini e bambine prigionieri di trucidare a bastonate i bambini e le bambine che tentano di fuggire, e se non obbediscono li fa assassinare dai suoi uomini. Cadrà in battaglia qualche mese dopo, colpito da uomini dell’Spla, l’organizzazione armata che combatteva per la liberazione del Sudan meridionale dal giogo di Khartoum.
Rachele trascorre sei ore al campo di Laghira. Lo supplica di liberare le ragazze, gli offre del denaro. «”Ne libererò 109, me ne tengo 30”, diceva. “Ti prego, lasciale tutte, tieni qui me”. “Quelle sono le 30 ragazze che restano con noi. Scrivi i loro nomi su questo foglio”. Le ragazze hanno cominciato a piangere e a implorarmi: “Suor Rachele, resta con noi, suor Rachele, sono figlia unica, non abbandonarmi”. Io mi gettavo in ginocchio e lo supplicavo: “Dammele tutte”. Si è arrabbiato, e ha ordinato di picchiarle. “Se fai così non te ne lascio nessuna”, mi ha detto. Non sono riuscita a scrivere i loro nomi, mi tremava la mano, lo hanno dovuto fare le ragazze stesse».
«Quando siamo arrivate ad Aboke, l’indomani alle 11 di mattina, la scena è stata straziante: davanti alla scuola c’erano tutti i genitori delle ragazze. Quelli che ritrovavano le figlie piangevano di gioia, quelli che non le trovavano più si disperavano. Per qualcuno quella è stata la fine della storia. Per me è stato l’inizio». Da quel giorno, 10 ottobre 1996, suor Rachele si batte per la liberazione delle sue ragazze e di tutti i minorenni rapiti dall’Lra in quegli anni.
L’ultima ragazza delle 30 rimaste prigioniere è tornata libera nel 2009, ben 13 anni dopo i fatti. Nel frattempo suor Rachele aveva creato la Concerned Parents Association (Cpa), cioè l’associazione dei genitori delle ragazze rapite, insieme ad Angelina Atyam, la madre di una di esse.
Insieme avevano incontrato i presidenti di Uganda e Sudan (che fiancheggiava la guerriglia), il ministro degli Esteri iraniano, Nelson Mandela, Hillary Clinton, Kofi Annan, Muammar Gheddafi, Robert Mugabe, molti europarlamentari e papa Giovanni Paolo II, che fece un appello per la liberazione delle prigioniere. Avevano visitato due volte le basi dell’Lra a Juba, ai tempi in cui la città era sotto il controllo del governo di Khartoum, per convincere i comandanti a rilasciarle. Avevano ottenuto che la Commissione per i diritti umani dell’Onu a Ginevra votasse una mozione che impegnava tutti i paesi a operare per la liberazione dei bambini ugandesi. Delle 30 ragazze rapite, cinque sono morte in prigionia, tre di esse torturate e assassinate.
«Oggi ho un rimorso», mi diceva, «e chiedo perdono a tutti: per tanti anni ho visto quello che succedeva in Uganda, e ho taciuto. Ho cominciato a parlare solo quando hanno toccato le mie figlie». “Le mie figlie”: proprio così le chiamava. Quelle che prima erano solo studentesse da tenere d’occhio, erano diventate figlie che intenerivano. Il drammatico avvenimento del rapimento aveva portato la novità. «Non smetterò mai di ringraziare Dio per avermi fatto essere là ad Aboke quella notte, a condividere la sofferenza, la paura, lo strazio. Perché da quel giorno sono un’altra donna, un’altra madre, un’altra suora, un’altra missionaria.
Ho sperimentato la verità delle parole di Gesù: “Non abbiate paura, io sarò con voi tutti i giorni, io vi darò le parole, io vi darò la forza”. Ho avuto la grazia di vedere cancellata l’estraneità, di vivere una condivisione vera con la gente a cui sono stata inviata come missionaria. Anch’io ora posso pronunciare con verità le parole dirette agli africani dal mio fondatore, il beato Daniele Comboni: “ho fatto causa comune con voi, i vostri dolori sono i miei dolori, le vostre gioie sono le mie gioie”.
E un’altra grazia, forse la più grande: ho fatto e faccio esperienza che ogni persona possiede dentro di sé qualcosa di buono, che dentro al cuore più disumanizzato c’è il bene, pronto a balzare fuori. Quando Laghira, il terribile Laghira, mi ha detto: “Ti do 109 ragazze”, quando ha voluto pregare insieme a me e ad una delle ragazze che aveva rapito prima di lasciarmi andare, quando mi ha chiesto di procurargli un’immagine della Madonna dopo che gli avevo dato il crocefisso di san Francesco.
Quando alla preghiera dei fedeli durante una Messa per le famiglie delle prigioniere una delle mie ragaz
ze ha preso la parola e ha pregato: “Signore, perdona Laghira che mi ha costretto ad uccidere a bastonate una bambina”. Quando i potenti che ho incontrato si sono parlati e hanno aperto il negoziato sui bambini rapiti in Uganda. Quando è successo tutto questo, io ho fatto l’esperienza, io ho avuto la certezza che nel cuore dell’uomo vive la bontà, e il compito di una missionaria è mettersi a disposizione per farla venire fuori».
Un’altra cosa che non è stata adeguatamente raccontata è la “diversità” della scuola di Aboke: nel suo caso l’immagine dell’istituto come una famiglia dove le suore e gli insegnanti sono madri e padri, e le ragazze sono le figlie, non ha nulla di retorico. Nonostante provengano da etnie spesso in lotta fra loro o addirittura tradizionalmente nemiche – acholi, lango, lugbara, karimojong – le ragazze fanno amicizia e studiano insieme.
Ogni aspetto della loro formazione e ogni loro bisogno è oggetto di dedizione e di attenzione al bene della persona. Le rette sono inferiori di un quarto a quelle delle altre scuole private, e nonostante questo alle studentesse sono offerti tre pasti abbondanti al giorno, visite mediche e medicinali gratuiti, la disponibilità dei libri di testo che vengono passati da una classe all’altra dopo aver rinnovato la rilegatura.
I problemi personali sono affrontati con spirito materno dalle suore: nelle scuole pubbliche l’eventuale gravidanza di una studentessa è punita con l’espulsione (col bel risultato di indurre un certo numero di aborti clandestini), ad Aboke, invece, quando qualche studentessa resta incinta le suore fanno tutto il possibile perché possa continuare a studiare o almeno venga sposata.
Nonostante abbiano vissuto esperienze terribili, tutte le ragazze che sono riuscite a fuggire dagli accampamenti dell’Lra che le aveva rapite si sono reinserite nella scuola senza i problemi di disadattamento tipici degli altri minori traumatizzati da un rapimento (fra questi ultimi il tasso di abbandono scolastico ha toccato anche il 70 per cento). Non c’è da meravigliarsi, allora, che le richieste di iscrizione siano puntualmente il triplo dei posti disponibili. Per anni, dopo i fatti del ’96, la scuola di Aboke è stata vigilata da un distaccamento militare armato anche di mitragliatrici pesanti. Fossero stati presenti quella notte, non ci sarebbe stato nessun rapimento; nessuna ragazza avrebbe vissuto un incubo durato anni, nessuna sarebbe stata uccisa con crudeltà. Ma suor Rachele non recrimina. Non è il tipo. Lei non fisserebbe mai come priorità la cattura di Joseph Kony, o la sua uccisione. Per lei si tratta di un uomo che come tutti ha un cuore e che potrebbe convertirsi e farsi perdonare. Questo è un tratto caratteristico della maggior parte dei cristiani perseguitati: confidano nella natura del cuore umano, nella sua apertura alla verità, nella sua bontà intrinseca. Perché Dio l’ha creato così. Anche il cuore del peggior persecutore, anche quello degli assassini.
* La storia di suor Rachela Fassera è stata raccontata da Rodolfo Casadei nel libro ”Tribolati, ma non schiacciati. Storie di persecuzione, fede e speranza” (Lindau 2012)