«Oggi si è compiuta questa scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21). Dopo averci convocati, Domenica scorsa, alla presenza del Signore per ascoltare dalla sua bocca l’inaudita verità, che cioè è in lui, nella persona di Cristo, che si compiono le promesse dei profeti, le attese messianiche di Israele, poiché è lui l’atteso, l’Unto di Dio, la Santa Chiesa ci pone, oggi, dinanzi alla reazione dei primi, che ascoltarono questa parola di verità.
Ad un primo sguardo, gli abitanti di Nazareth, convenuti nella sinagoga, sembrano essere entusiasti di Gesù. Scrive, infatti, San Luca: «Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca». I nazareni, osservandolo, ascoltandolo parlare, vedendo con quanta delicata fermezza, con quale originaria autorevolezza si rivolge loro, profondamente toccati dalle “parole di grazia che uscivano dalla sua bocca”, non fanno altro che parlare di Cristo, rendendogli, così, testimonianza. Ma – aggiunge l’evangelista – «dicevano: “non è costui il figlio di Giuseppe?”».
Di fronte all’inequivocabile “novità” di Cristo e all’insopprimibile meraviglia che ne deriva, gli abitanti di Nazareth sembrano “disinnescare” la grazia dell’incontro con Cristo, in un modo tristemente noto anche a questa nostra epoca: essi riducono la realtà che hanno di fronte. Mentre Gesù annuncia loro di essere l’inviato del Padre, l’Unto invocato da Israele, colui che tutto il popolo, ardentemente, attendeva, i nazareni antepongono alla realtà una propria idea, un preconcetto: dal momento che conosciamo il nome di suo padre, Giuseppe, il carpentiere che tuttora lavora nella nostra cittadina, poiché della sua vita fino ad oggi possiamo tracciare le coordinate spazio-temporali, egli non può essere colui che afferma di essere.
Quale assurdità! Lo hanno davanti ai propri occhi, sono colpiti dal suo parlare, Cristo si manifesta loro come mai aveva fatto nei trent’anni di vita nascosta a Nazareth, tutta la realtà dice loro che v’è qualcosa di assolutamente nuovo, che non può che essere preso nella più seria considerazione, eppure si ritirano in un’irragionevole ottusità, escludendo aprioristicamente qualunque “rivelazione”: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Così l’uomo fugge la responsabilità del reale. Sì, perché, quanto più la realtà che abbiamo dinanzi è vera, grande e gratuita, tanto più siamo chiamati a rispondere, con la salutare fatica del personale coinvolgimento. E, poiché sarebbe palesemente falso non coinvolgersi di fronte ad una tale realtà, talvolta, l’ipocrisia umana arriva, piuttosto, a negarla: questo accade nel rapporto diretto con Cristo, ma accade anche – oggi – di fronte al bambino concepito nel ventre di sua madre, all’assoluta sacralità – e quindi indisponibilità – della vita fino al suo termine naturale, all’originarietà della famiglia fondata sul matrimonio, quale cellula costitutiva ed insostituibile della società, al bisogno religioso dell’uomo in taluni regimi politici. E, poiché – dice San Paolo – la realtà, invece, è Cristo (cfr. Col 2,17), è sempre lui, infine, ad essere negato.
«In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria» (Lc 4,24). Nei Vangeli, emerge sempre, con evidenza assoluta, la divina pazienza di Cristo, la pedagogia che adotta con i suoi interlocutori, convertendo in bene anche l’ipocrisia dei farisei, mentre cercano di trarlo in errore con le domande più subdole; con pazienza, affronta persino il tradimento di Giuda, l’ignominioso processo e l’ingiusta condanna. Ma, in due circostanze, egli reagisce sempre con fermezza: quando la bocca dei demoni cerca di rivelarne l’identità e quando gli uomini cercano di definirlo dentro i confini della cerchia parentale. Quando, mentre predicava, una donna si alza, esclamando: «Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!» (Lc 11,27), egli risponde: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano» (Lc 11,28). E a chi gli annuncia che sua madre, i suoi fratelli e le sue sorelle lo stanno cercando, egli, guardando chi gli sta attorno, dice: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui è per me fratello, sorella e madre» (Lc 8,20).
Poiché il concepimento di Cristo, il suo ingresso nel mondo, avviene per l’adesione della libertà umana, per l’adesione di Maria al progetto del Padre, così l’appartenenza a lui avviene attraverso l’accoglienza della sua divina identità, confessata dal Padre sulle rive del Giordano: «Tu sei il Figlio mio, l’amato». Aderendo a Cristo, aderendo alla verità di lui, allora diveniamo, anche noi, una sola carne con lui, sangue del suo sangue. E se non vi è patria alla quale Cristo possa appartenere, nella quale sia possibile abituarsi a lui, poiché egli è sempre nuovo, sempre fecondo di vita, dal momento che egli stesso è la verità e la vita, è vero altresì che nemmeno l’uomo, in fondo, può avere una patria su questa terra, poiché in nessun luogo egli può “riposarsi” da se stesso, dall’insopprimibile domanda di significato, di senso, di pienezza che egli è.
Solo in luogo, che tutti gli altri luoghi abbraccia e supera, questo è possibile. Solo nella Chiesa, solo in quella porzione di umanità che Dio ha preso e trasformato, per farne la sua presenza nel mondo, solo qui è possibile all’uomo scoprire davvero se stesso, l’abissale desiderio del suo cuore, il suo destino ultimo, mentre contempla il figlio che è nato da Maria, l’amore crocifisso e risorto che quotidianamente si offre per noi sull’altare e ci attira dentro di sé, verso la comunione piena con lui.
Domandiamo, dunque, alla Beata Vergine Maria un cuore “allergico” ad ogni riduzione del reale e povero di “patrie”, perché tutto radicato in Cristo Dio, che, qui sulla terra, non ha dove posare il capo (cfr. Lc 9,58), ma che, a quanti lo accolgono, apre, fin d’ora, le porte del Paradiso. Amen!