La spina è debolezza che da' forza

Vangelo della XIV Domenica del Tempo Ordinario

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di padre Angelo del Favero*

ROMA, giovedì, 5 luglio 2012 (ZENIT.org).- 2 Cor 12,7b-10

Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia.

A causa di questo, per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza”.

Mi vanterò quindi ben volentieri delle mia debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte”.

Mc 6,1-6

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: “Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?” Ed era per loro motivo di scandalo.

Ma Gesù disse loro: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.”.

Il Vangelo di oggi racconta un momento doloroso e significativo del ministero di Gesù. Giunto a predicare nella sua città di Nazaret, egli vi trova una diffidenza tale da essere apertamente rifiutato. Matteo e Marco scrivono che Gesù “era per loro motivo di scandalo”, e riferiscono questa amara constatazione del Signore: “un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua”. Luca aggiunge che l’avversione verso il Signore giunse ad un punto tale da degenerare in tentato omicidio (Lc 4,29). Di fronte ad una simile durezza e incomprensione di parenti e conoscenti, Gesù si sente impotente e se ne va profondamente rattristato:“E lì non poteva compiere nessun prodigio…E si meravigliava della loro incredulità” (Mc 6,5-6).

Ma la tristezza della dura opposizione dei Nazaretani viene spazzata via dall’affermazione odierna di Paolo:“mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni,..: infatti quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Cor 12,10). Qui parla l’apostolo, ma parla anche il suo e nostro Maestro Gesù.

Mandato dal Padre per compiere l’opera del Suo amore, il Signore sceglie e percorre la via della debolezza.

A Nazaret avrebbe potuto facilmente dimostrare la propria divinità, ma evita di farlo limitandosi ad operare nascostamente poche guarigioni. Questa scelta mite ed umile condurrà fatalmente Gesù sulla croce, come oggi afferma ancora Paolo: “Cristo fu crocifisso per la sua debolezza” (2 Cor 13,4).

Ora, se pensiamo che in Gesù dimora corporalmente tutta la potenza della divinità, rimaniamo profondamente stupiti da questa sua condotta paradossale: quale atleta può pensare di vincere programmando la sconfitta?

Dal nostro versante, poi, c’è da dire che l’indicazione della come metodo, oltre ad essere pedagogicamente discutibile, sembra contraddire il buon senso. Pensiamo qui all’assurdo consiglio divino: “Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti da’ uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra” (Mt 5,39). Non opporsi volontariamente al male è già cosa ingiusta, ma raddoppiarlo sembra un’insulsa degradazione.

Chi di noi, trovandosi in coda ad uno sportello, si compiacerebbe di un primo prepotente che non rispetta la fila, per dare poi tranquillamente spazio anche ad un secondo? Se con il mio comportamento alimento il male, non offendo forse la stessa dignità umana? Non fa parte dell’amore educare alla non-violenza?

Ora, certamente né Gesù, né san Paolo sono i paladini della rassegnazione passiva!

Lo ha spiegato recentemente Benedetto XVI, commentando l’affermazione “Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze..quando sono debole è allora che sono forte” (2 Cor 12, 9b-10).

Paolo si trovava qui nell’impossibilità di rimuovere un imprecisato impedimento (“spina”), a causa del quale la sua azione apostolica risultava indebolita. Ciò nonostante, l’apostolo non solo non si rammarica, ma si rallegra come farebbe chi sta riportando un grande successo. Pura illusione, follia?

Spiega bene Benedetto: “Paolo non si vanta delle sue azioni, ma dell’attività di Cristo che agisce proprio nella sua debolezza. (…). Nel momento in cui si sperimenta la propria debolezza, si manifesta la potenza di Dio, che non abbandona, non lascia soli, diventa sostegno e forza” (Udienza Generale, 13 giugno 2012).

Concettualmente queste parole sono chiare, ma è fondamentale notare che non basta la sola debolezza per attirare quella potenza di Dio che fa volgere al bene la precarietà della situazione.

L’impotenza umana, infatti, deve essere accettata e vissuta, in quello spirito di fede che consiste nella scelta esistenziale dell’imitazione di Cristo, segno e frutto di quella relazione vitale di profonda amicizia con Lui che è, e deve essere, la preghiera.

Osserva infatti il Papa: “..nella misura in cui cresce la nostra unione con il Signore e si fa intensa la nostra preghiera..anche noi andiamo all’essenziale e comprendiamo che non è la potenza dei nostri mezzi, delle nostre virtù, delle nostre capacità che realizza il regno di Dio, ma è Dio opera meraviglie proprio attraverso la nostra debolezza, la nostra inadeguatezza all’incarico.” (id.).

Non merita di essere chiamata ‘preghiera’ ciò che non lo è, come non è vera amicizia una relazione interessata e formale, anche se quotidianamente esercitata. In ogni ora e in ogni modo, il momento della preghiera deve essere un fedele, perseverante ed affettuoso ‘tu per tu’ con Gesù, sostenuto dalla coscienza/esperienza nella fede della sua viva e dolce presenza dentro di noi.

Si sperimenta così la fecondità inaudita e divina della nostra debolezza, come conclude il Papa: “Soltanto se siamo afferrati dall’amore di Cristo, saremo in grado di affrontare ogni avversità come Paolo, convinti che tutto possiamo in Colui che ci dà la forza (cfr Fil 4,13). Quindi, quanto più diamo spazio alla preghiera, tanto più vedremo che la nostra vita si trasformerà e sarà animata dalla forza concreta dell’amore di Dio.” (id.).

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

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ZENIT Staff

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