di padre Piero Gheddo

ROMA, giovedì, 26 luglio 2012 (ZENIT.org).- Nel 2000, la Conferenza episcopale d’Australia pubblicò una lettera che ricordava e chiedeva perdono per le colpe dei cristiani nella vita personale e familiare, ma anche nella società e nello Stato, soprattutto verso i più poveri e discriminati fra gli australiani: gli “aborigeni”, oggi mezzo milione su 23 di australiani, alla fine del 1700 si è calcolato che fossero circa due milioni di individui.

In Australia, i 1.030 “invasori” inglesi che il 28 gennaio 1788 sbarcarono da 11 vascelli per occupare e colonizzare quel “mondo nuovo”, vennero presto in contatto con i primitivi abitatori di quelle terre. Così inizia un lungo periodo storico nel quale gli “emigrati”, prelevati forzosamente dalle galere britanniche e tra le classi più umili e povere del popolo inglese, venivano mandati dal governo di Londra a popolare la colonia australe (nei primi tempi l’Australia era una colonia penale).

Nelle classi evolute d’Europa si discuteva se i primitivi abitatori delle foreste, che le potenze europee andavano scoprendo in Australia e nelle Americhe, avevano un’anima umana come quella degli europei oppure “solo un’anima silvestre”. Erano, insomma, homines silviculi, non uomini come i bianchi, ma “uomini della foresta”, una categoria inferiore di creature, a metà strada tra gli uomini redenti da Cristo e gli animali selvatici. Gli stessi “illuministi” del 1700 non avevano idee chiare su questo punto. Basta dire che il grande Voltaire (1694-1778), punta di diamante del pensiero illuminista, investiva i suoi soldi in una società che trasportava gli schiavi neri dall’Africa alle Americhe. In contrasto con la cultura dominante in Europa, i Pontefici romani e i missionari affermavano chiaramente la natura umana di indios americani, neri africani e aborigeni australiani, che andavano trattati da uomini diversi da noi, ma anch’essi facenti parte del genere umano e redenti da Cristo.

Anche in Australia, gli inglesi adottarono il “metodo” più facile per entrare in contatto con i primitivi abitanti dell’Australia: lo sterminio degli adulti e la “deportazione” dei bambini strappandoli ai loro genitori e inserendoli forzosamente nella società occidentale, cioè in orfanotrofi statali o religiosi, che tentavano di farne dei perfetti anglosassoni, cancellandone le radici ed eredità culturali. Dopo molte altre correzioni della rotta iniziale, solo nel 1975 il Racial Discrimination Act ha posto fine a molte infamie simili ed ha fatto iniziare alla società australiana un cammino contro corrente, che ha portato all’istituzione dell’annuale Sorry Day (Giorno del rammarico), che si celebra ogni anno. Oggi il popolo e il governo australiano riconoscono i diritti degli aborigeni, ma quel periodo storico di com’è iniziata la colonizzazione dell’Australia non può essere cancellato.

Eppure, anche in quel mondo primitivo e disumano erano già presenti i missionari, gli unici che hanno avvicinato gli aborigeni con amore disinteressato e hanno dato la vita per loro. Il Pime, nato nel 1850, dal 1852 al 1855 ha avuto la sua prima missione fra i nativi di due isole, che oggi fanno parte della Papua Nuova Guinea, durata poco meno di tre anni e finita con la morte di fratel Giuseppe Corti a Rook e il martirio del Beato Giovanni Mazzucconi a Woodlark. Era impossibile intendersi e annunziare Cristo a popoli che vivevano nell’era della pietra e sempre in guerra fra di loro, non avevano visto nient’altro che il loro piccolo mondo, non pensavano e non capivano altro se non la legge della sopravvivenza.

Più ancora merita attenzione la missione di un prete nato nel 1813 a Riva del Garda (Trento), don Angelo Confalonieri, che dopo nove anni di ministero sacerdotale in diocesi vuole andare in missione. Nel 1844 il vescovo di Trento lo manda a Propaganda Fide, che lo invia, tutto solo, alla diocesi di Perth in Australia, il cui territorio era esteso una decina di volte la nostra Italia! Parte da Londra il 17 settembre del 1845, con altri 26 religiosi di varie nazionalità trovati dal vescovo mons. Brady per la sua diocesi. Tre mesi e mezzo dopo, l'8 gennaio 1846, don Angelo giunge nella solare Perth. L’Australia finalmente!

Il vescovo di Perth lo destina, con due chierici irlandesi studenti di teologia, James Fagan e Nicholas Hogan, al Nord per stabilirvi al più presto una missione fra gli aborigeni. Ma purtroppo i due irlandesi affogano nel naufragio della nave che li stava portando da Sydney a Essington, nel grande Nord australiano. In quel naufragio, padre Angelo salva la vita ma perde tutto quel che aveva portato per iniziare la missione. Deve quindi affrontare da solo l’avventura della prima missione fra gli aborigeni e prima ancora l’inserimento in una società inglese e anglicana, che non vedeva bene il prete cattolico.

Dopo il naufragio, solo e senza un soldo, padre Angelo è portato nel presidio militare di Essington dove giunge il 13 maggio 1846 e si rende subito conto di quanto deteriorati sono i rapporti fra inglesi ed aborigeni. Poteva rinunziare al progetto di fondare una missione fra gli aborigeni della penisola di Cobourg, fare ritorno a Sydney e probabilmente anche a Perth dal vescovo Brady che l’aveva mandato.

Ma il missionario originario delle Dolomiti rivela tutta la forza della sua fede in Cristo e nella missione. Decide di rimanere sul posto e scrive in una lettera conservata nell’Archivio di Propaganda Fide: “… tuttavia non cesserò, colla grazia ed assistenza del Signore, di tutto sacrificare me stesso a Gloria di Dio, ed a salute di questi miserabilissimi nostri fratelli”. Naturalmente la Provvidenza interviene ad aiutarlo, come testimoniano tante altre situazioni simili nel mondo missionario.

Padre Angelo muore troppo presto, a 35 anni, dopo due soli anni di missione fra gli aborigeni australiani. Ma quel poco che conosciamo di lui lo rende veramente esemplare ed eroico, fino alla morte prematura a 35 anni. Una vita simile a quella del Beato Giovanni Mazzucconi, morto martire nell’isola di Woodlark a 29 anni nel settembre 1855, dopo 5 anni di sacerdozio e tre di missione. E’ stato beatificato da Giovanni Paolo II il 19 febbraio 1984.

Il racconto di questa storia nel romanzo storico di Rolando Pizzini: “Nel Tempo del Sogno” (La Fontana di Siloe, Editrice Lindau, Torino 2012). Con l’aiuto di John McArthur, comandante del presidio militare di Essington, ammirato dalla pietà e bontà del missionario, don Angelo si costruisce una capanna vicino ad un accampamento indigeno e passa poi un anno intero con quei tribali,vivendo con loro e in tutto come loro, conducendo una vita nomade, imparando la loro lingua, abituandosi a mangiare insetti, vermi, lucertole, topi, erbe di foresta commestibili, radici di alberi tritate e bollite, andando a caccia di canguri e di altri animali, pescando nei torrenti e in mare con strumenti primitivi. Insomma, diventando “uno di loro” si conquista una fiducia che nessun altro bianco prima di lui aveva avuto. Compila alcuni lavori: una carta geografica della penisola di Cobourg con segnate le sette tribù che vi abitavano, un dizionarietto inglese-lingua aborigena, la traduzione di alcune preghiere. Muore di febbri malariche e di esaurimento delle forze vitali nella sua capanna di Black Rock il 9 giugno 1848.

Saluto gli amici lettori, augurando a tutti una buona estate con il Signore Gesù. Ci rivedremo, se Dio vuole, verso la fine di agosto.