Una riflessione su giustizia, carità e misericordia (Terza parte)

Relazione di Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, all’ultimo Convegno annuale della Fondazione Centesimus annus – Pro Pontifice

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Pubblichiamo oggi la terza parte della relazione tenuta dal presidente emerito della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick, all’ultimo Convegno annuale della Fondazione Centesimus annus – Pro Pontifice, che si è svolto dal 19 al 20 ottobre scorsi a Cuneo ed era dedicato al tema “La giustizia è la prima via della carità” (Caritas in Veritate n. 6). 

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3. Misericordia

Nell’origine ebraica di ciò che oggi traduciamo con misericordia, l’Antico Testamento indica quest’ultima con l’espressione rehamim, che propriamente designa le “viscere” (al singolare, in senso materno, ventre). Dunque, a differenza della giustizia, che si struttura nella relazione, la misericordia si colloca, anche topograficamente, nell’antro più segreto della corporeità del singolo uomo.

Ovviamente, si tratta di un senso traslato, metaforico: serve, linguisticamente, ad esprimere quel sentimento intimo, profondo e amoroso che lega due esseri per ragioni di sangue o di cuore, come la madre o il padre al proprio figlio (Sal. 103,13) o un fratello all’altro (Gen.43,30). Essendo questo legame riposto nella parte più intima dell’uomo (le viscere, appunto, come quando noi parliamo di amore sviscerato o di odio viscerale; ma in genere preferiamo il termine “cuore”), il sentimento che ne scaturisce è spontaneo e aperto ad ogni forma di tenerezza.

La misericordia è, dunque, innanzitutto la irripetibile tenerezza della madre per il figlio, che continua a rimanere nelle sue viscere anche dopo il parto; o la profondità amorosa, incorruttibile dal tempo, che proviamo verso il fratello di sangue, più giovane o anziano che sia.

E’, per il cristiano, la consapevolezza dell’amore infinito posto a base della nostra creazione. Essa muove da un sentimento spontaneo, non da una deliberazione cosciente, a seguito di una relazione comportante diritti e doveri, non sempre reciproci. Il suo aspetto fondamentale non è quello dell’assunzione doverosa, in forza di un obbligo: al contrario, essa è ablativa, unitiva al di là del ruolo; com-passione, dunque sentimento condiviso; infine “bontà”.

Forse che la donna si dimentica del suo bambino, cessa di avere compassione del figlio delle sue viscere? Anche se esse si dimenticassero, io non ti dimenticherò”, scrive Isaia (49,15): misericordia,da parte dell’autore della vita, talmente piena da superare l’amore viscerale della madre nei confronti del figlio. D’altra parte, della misericordia iniziale, Dio conserva memoria per gli uomini: a condizione che gli uomini siano fervidi nella speranza di riceverla, fino all’insistenza, fin quasi all’insolenza. Come Abramo allorquando apre la “trattativa” con il suo Signore per cercare di salvare Sodomia, con una intercessione sublime, che finisce per commuovere e fa tremare chi legge (e turba la legge). «Forse in quella città vi sono cinquanta innocenti. Davvero tu li vuoi far morire? … Può darsi che invece di cinquanta innocenti ve ne siano cinque di meno!… quaranta, … trenta, … venti, …dieci! – Per amore di quei dieci non la distruggerò, rispose il Signore» (Gen. 18, 23-33). Si salverà solo Lot, come sappiamo: ma Abramo insegna la compassione che dovremmo avere per i peccatori, e mostra con quanta intensità dovremmo pregare per loro, cioè per noi stessi. Insegna altresì che la compassione genera compassione: tanto vero che Dio − del quale, nell’incalzare del dialogo, il lettore arriva a temere uno scoppio d’ira o una ferma “chiusura” all’implorazione − si commuove e promette, pur elargendo la sua misericordia a chi vorrà Lui, come dirà Paolo nella Lettera ai Romani. Se la giustizia non genera, in sé, la misericordia, la preghiera efficace e fervente di un giusto certamente la sollecita.

E − proseguendo nella simbologia − «se il simbolo della giustizia è la spada, quello della misericordia è la croce. La spada che aveva cacciato Adamo ed Eva dal giardino dell’Eden è vinta dalla croce, che diviene pertanto il segno della giustizia nella sua forma perfettamente cristiana» ( A. Prosperi). Mentre nella tradizione ebraica, che non ha ritenuto di far propria l’aurora della Croce, giustizia e misericordia si fronteggiano da sempre: persino nel nome della divinità.

In ebraico (Haim Baharier) la parola Dio non esiste: vi sono solo due nomi, attributi del Divino, alcune consonanti dei quali sono tra parentesi per adempiere al divieto di scrittura profana dei nomi divini e al fine di renderli, per la stessa ragione, sostanzialmente impronunciabili. Il primo è ‘Adon(n)ài: esso è il nome di Dio nella dimensione della misericordia (rahamìm); il secondo è Elo(h)ìm, il nome di Dio nella dimensione del rigore (din), quindi della giustizia.

La teru’à, voce del Dio del rigore − nota ancora Baharier − è frammentata ma piena, intrisa nei suoi interstizi della misericordia di ‘Adon(n)ài: a sua volta, la voce silente della misericordia inframmezza i suoni del rigore. Lo stesso vale per l’orante: egli è voce reiterata, ’Ado(n)nai è l’Elo(h)ìm, poiché l’avvicinarsi alla misericordia è, ogni volta, inaspettatamente, incontro con il rigore; «l’affinamento del rigore, nel rigore, è il percorso verso la misericordia».

Il Dio della misericordia subentra, nella tradizione ebraica, a quello della giustizia e del rigore. Come insegnano alcuni maestri della Kabbalà, interpretando, sulla scia del Midràsh, il primo versetto della Genesi; Dio creò e distrusse venticinque volte ciò che aveva creato; alla ventiseiesima volta, creò una parola nuova − dai, in ebraico, che corrisponde al nostro basta − e finalmente contemplò l’opera del suo verbo. “Basta” è una frontiera, un limite: ciò fa dire ai maestri «che questo limite, scaturito dalla misericordia divina, rappresenta per il creato l’inizio, la nascita della dimensione della giustizia, non fondata sulla centralità, ma nutrita dall’esperienza dei limiti» (Baharier). A leggere in filigrana i testi midrashici e cabalistici, «è come se i venticinque tentativi fossero macchiati da un’esitazione del Creatore seduto sul trono della giustizia». La ventiseiesima volta, «senza abbandonare il trono della giustizia, ma sedendo anche su quello della rahamìm, della misericordia, Egli disse: halevày sheya ‘amod, “speriamo che tenga”».

(La seconda parte è stata pubblicata venerdì 18 gennaio. La quarta parte uscirà domani, domenica 20 gennaio)

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ZENIT Staff

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