Il cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin è intervenuto oggi presso la Pontificia Università Gregoriana in Roma al "Dies Academicus", annuale giornata di studio su un tema che le varie unità dell’Ateneo affrontano secondo le differenti prospettive accademiche (teologia, filosofia, storia, beni culturali, diritto canonico, scienze sociali, missiologia, psicologia, spiritualità, ecc.). Il tema affrontato quest’anno è "La pace: dono di Dio, responsabilità umana, impegno cristiano".

Di seguito riportiamo un estratto del testo della Lectio Magistralis tenuta questa mattina dal Cardinale Segretario di Stato.

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1. Rende particolarmente significativo l’incontro di oggi il modo con cui è stato preparato, coinvolgendo le diverse Facoltà e Istituti dell’Università tutti chiamati a riflettere sulla pace ed a proporre sentieri di pace secondo il rispettivo approccio filosofico, teologico, giuridico, psicologico, sociale, storico e della comunicazione. La pace, dunque, vista come strumento di quella reductio ad unum che si realizza quando la conoscenza che è propria delle diverse discipline si fonde nell’unità del Sapere.

Un metodo quanto mai necessario a fronte di quella frammentazione che interessa anche il Sapere, spesso riducendolo a tante conoscenze tra loro separate e quasi impenetrabili. Ognuna propone la sua risposta ai grandi interrogativi dell’uomo, dimenticando che si tratta solo di soluzioni che, per quanto competenti e corrette, rimangono parziali. E anche la questione della pace non sfugge a questa dinamica.

Utilizzando le tecniche della comunicazione, se volessimo esprimere con una "nuvola di parole" (word cloud) cosa rientra nel concetto di pace troveremo termini quali armamenti e spesa militare, disordine, conflitti interni, guerra, tensioni ideologiche e religiose, odio razziale, ma anche povertà, cambiamenti climatici, fame, risorse naturali…. Un lungo elenco che rende impossibile stabilire quali siano le parole più importanti, quelle da scrivere con un carattere più grande, per intenderci.

Anche la pace, dunque, rischia di essere vista nelle sue diverse sfaccettature, tutte valide, anche se spesso lontane dall’obiettivo unitario di costruirla. Per questo anche le riflessioni che intendo condividere con Voi tutti, sono animate dal desiderio di coinvolgere le differenti realtà che compongono l’Universitas perché ognuno senta la sua chiamata ad essere protagonista nell’impegno a edificare un futuro di pace.

2. Lo scorso 12 gennaio, incontrando il Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Papa Francesco richiamava il duplice significato della pace, indicando «Quest’oggi desidero far risuonare con forza una parola a noi molto cara: pace! Essa ci giunge dalla voce delle schiere angeliche, che la annunciano nella notte di Natale (cfr Lc 2,14) quale prezioso dono di Dio e, nello stesso tempo, ce la indicano come responsabilità personale e sociale che ci deve trovare solleciti e operosi».

La pace, dunque, come dono di Dio e come frutto dell’azione umana. E se il dono appartiene all’ordine della gratuità che unisce il Creatore alle sue creature, l’azione umana riconduce alla responsabilità. Come credenti, non possiamo certo dubitare che il Padre nostro ci farà mancare ciò di cui abbiamo bisogno (Mt 6, 32), ma come donne e uomini che vivono ogni giorno il loro pellegrinaggio terreno abbiamo certamente la responsabilità di costruire la pace. Vuol dire che aspirare alla pace non basta, come non è sufficiente l’intenzione di operare per la pace: occorrono comportamenti concreti e coerenti, azioni mirate e, soprattutto, la piena coscienza che ognuno nel suo piccolo o grande mondo quotidiano è "costruttore di pace" (Mt 5,6), pur nei diversi compiti, incarichi e funzioni.

Chi vi parla non nasconde che le parole di Papa Francesco appena richiamate sono motivo di quotidiana riflessione di fronte all’esercizio della funzione di primo collaboratore del Vescovo di Roma anche nell’azione propriamente internazionale. Un mandato che porta il Segretario di Stato a diretto contatto con i Responsabili politici e quindi con le circostanze che determinano la vita della Comunità internazionale, le relazioni tra gli Stati, le attività degli Organismi internazionali e, in particolare, le vicende dei diversi popoli che compongono la famiglia delle Nazioni. Un mosaico di situazioni che gli avvenimenti di cui siamo protagonisti o a cui ogni giorno assistiamo, colorano di contrasti, di diffidenze che giungono anche a quella «violenza fratricida»2che provoca disastri umanitari di vaste proporzioni.

Quale parte di questa complessità – oggi amplificata dall’immediatezza comunicazione, spesso con crudo realismo – l’azione diplomatica della Santa Sede non si accontenta di osservare gli accadimenti o di valutarne la portata, né può restare solo una voce critica. Essa è chiamata ad agire per facilitare la coesistenza e la convivenza fra le varie Nazioni, per promuovere quella fraternità tra i Popoli, dove il termine fraternità è sinonimo di collaborazione fattiva, di vera cooperazione, concorde e ordinata, di una solidarietà strutturata a vantaggio del bene comune e di quello dei singoli. E il bene comune, come sappiamo, con la pace ha più di un legame.

La Santa Sede, in sostanza, opera sullo scenario internazionale non per garantire una generica sicurezza – resa più che mai difficile in questo periodo dalla perdurante instabilità –, ma per sostenere un’idea di pace frutto di giusti rapporti, di rispetto delle norme internazionali, di tutela dei diritti umani fondamentali ad iniziare da quelli degli ultimi, i più vulnerabili. Quella pace che, come ebbe a dire il Beato Papa Paolo VI, riprendendo la Costituzione conciliare Gaudium et Spes, non scaturisce solo da «un’assenza di guerra frutto dell’equilibrio precario delle forze»3. Una prospettiva che superava una convinzione tradizionale dei rapporti internazionali, strutturati sull’alternarsi tra la pace e la guerra.

I Papi, in particolare quelli più vicini noi, hanno manifestato e manifestano questa visione nel loro insegnamento – come non ricordare la Pacem Dei Munus di Benedetto XV a conclusione del primo conflitto mondiale o la Pacem in Terris di San Giovanni XXIII scritta nel pieno di un mondo diviso –, ma la manifestano anche nei contesti internazionali più significativi, nei momenti di maggiore tensione, mostrando come la pace non è solo un punto fermo della dottrina della Chiesa, ma nei suoi contenuti è una sorta di agenda per la condotta della Santa Sede nella società degli Stati e per la connessa attività diplomatica che essa esercita.

Un’attività che a molti può sembrare retaggio di vicende storiche ormai lontane, emanazione di un potere temporale che mal si addice ad una dimensione pastorale e spirituale della Chiesa. Eppure l’immagine di "Popolo di Dio" a cui l’ecclesiologia del Vaticano II affida il compito d’instaurare il Regno di Cristo, ci dice che la Chiesa «nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida ed eleva».

La diplomazia della Santa Sede ha una chiara funzione ecclesiale: se è certamente lo strumento di comunione che unisce il Romano Pontefice ai Vescovi a capo delle Chiese locali o che consente di garantire la vita delle Chiese locali rispetto alle Autorità civili5, oserei dire che è anche il veicolo del Successore di Pietro per "raggiungere le periferie", sia quelle della realtà ecclesiale che quelle della famiglia umana. Senza l’opera delle Rappresentanze diplomatiche pontificie quanti credenti – e non solo battezzati – vedrebbero limitata la loro fede? Quante istituzioni della Chiesa rimarrebber o senza quel vitale contatto con il suo governo centrale che ne disegna l’agire, dà loro sostegno e finanche credibilità? Sul versante della società civile, la mancata presenza della Santa Sede nei diversi contesti intergovernativi di quali orientamenti etici priverebbe gli indirizzi di cooperazione, il disarmo, la lotta alla povertà, l’eliminazione della fame, la cura delle malattie, l’alfabetizzazione?

Quanti dedicano il loro ministero sacerdotale ed episcopale al servizio diplomatico della Santa Sede conoscono bene questa loro responsabilità che li rende partecipi dell’esercizio di un aspetto del munus Petrino, ben sintetizzato dal can. 362 del Codice di Diritto Canonico: «Il Romano Pontefice ha il diritto nativo e indipendente di nominare e inviare suoi Legati sia presso le Chiese particolari nelle diverse nazioni o regioni, sia presso gli Stati e le Autorità pubbliche, come pure di trasferirli e richiamarli, nel rispetto però delle norme del diritto internazionale per quanto riguarda l'invio e la revoca dei Legati accreditati presso i Governi».

Una visione chiara e capace di far convergere sulla diplomazia pontificia le ragioni ecclesiali – nelle quali il teologo ritrova in pienezza quella dimensione della collegialità esposta dalla Lumen Gentium – e il suo pieno inserimento nelle regole che governano i rapporti internazionali, consentendo al giurista di cogliere quanto sia profonda la relazione tra il diritto della Chiesa e l’ordinamento internazionale.

Due ordinamenti certamente autonomi ed originari, e per questo necessariamente aperti al confronto e al collegamento, in molti casi determinanti per la vita della Chiesa: ne sono esempi l’uso dello strumento diplomatico, per sua natura volto «a favorire le relazioni amichevoli tra gli Stati, quale che sia la diversità dei loro ordinamenti costituzionali e sociali»; o la conclusione di trattati, nella forma bilaterale e multilaterale, e cioè di uno strumento con una duplice funzione: «quale fonte di diritto internazionale e quale mezzo per sviluppare la collaborazione pacifica fra le Nazioni».

 Il pensiero va immediatamente agli accordi che la Santa Sede conclude con gli Stati e con altri soggetti di diritto internazionale che interpellano l’ordinamento canonico certamente a mostrare la sua peculiare finalità e il suo dominio riservato (la domestic jurisdiction,come è d’uso dire nel linguaggio internazionale), ma anche a ricercare i mezzi per dare la giusta collocazione ai contenuti degli accordi. E ben sapendo che le norme contenute nei trattati conclusi dalla Santa Sede prevalgono anche se contrarie alle disposizioni canoniche codiciali, come oggi ben sottolineano il can.3 del Codice latino e l’analogo contenuto del can. 4 dei Canoni delle Chiese Orientali.

Già il 19 aprile 1945, molto prima dunque della vigente codificazione canonica, furono queste le motivazioni che portarono la Santa Sede ad aderire come membro en plein droit all’Istituto Internazionale per l’Unificazione del Diritto Privato (UNIDROIT), certa che il diritto canonico potesse a giusto titolo sedere tra gli altri ordinamenti giuridici vigenti nelle diverse regioni del mondo e con essi confrontarsi, smentendo chi lo voleva mera regolamentazione di un culto religioso. Tentazione, quest’ultima, ritornante in tanti ambienti, anche internazionali.

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