Anche i bambini di strada possono diventare maestri di vita e di fede. Ne è la prova l’esperienza ultraventennale compiuta in Romania da padre Georg Sporschill, missionario gesuita di origine austriaca, che ha raccontato il suo apostolato nel libro Chi salva una vita salva il mondo intero (San Paolo, 2014).

Il volume è stato presentato ieri a Roma, prima alla Camera dei Deputati, poi presso la parrocchia di San Giovanni Battista De Rossi, dove padre Sporschill è intervenuto assieme ad alcuni dei ragazzi che lui stesso ha contribuito a togliere dalla strada e che oggi sono diventati i suoi più fedeli collaboratori. Con lui anche don Stefano Stimamiglio, sacerdote della Società San Paolo e vicecaporedattore della rivista Credere.

“Nel mio lavoro giornalistico sono abituato a confrontarmi con uomini di Chiesa che vengono da esperienze anche molto diverse dalla mia”, ha raccontato a ZENIT, don Stimamiglio.

“Ho ricevuto il grande dono di poter condividere l’esperienza di altri carismi attraverso il mio carisma con il più ampio pubblico possibile – prosegue il paolino -. Quella di padre Georg è davvero una storia che merita di essere conosciuta, perché esprime il modo concreto la Chiesa che va verso le periferie, il che è un po’ il nucleo del pensiero di papa Francesco”.

Nel corso del suo breve tour romano, ZENIT ha incontrato padre Georg Sporschill, che ha testimoniato il suo modo di vivere la Chiesa a contatto con gli ultimi, lungo la via del Calvario.

Padre Georg, lei è entrato nella Compagnia di Gesù piuttosto tardi, a trent’anni. Ci può raccontare come è nata la sua vocazione?

Vengo dal Vorarlberg, una regione dell’Austria occidentale, siamo nove fratelli. Sono cresciuto in un tempo in cui la fede cristiana era un fatto normale, radicato in ogni famiglia, come avviene ancora oggi in Italia.Vivere in una famiglia numerosa mi è stato utile, quando, molti anni dopo, sono entrato nella Compagnia di Gesù e ho iniziato subito a fare apostolato con i bambini di strada, con i quali mi sono trovato come in una grande famiglia. Prima di arrivare alla mia scelta religiosa, ho attraversato varie crisi personali, una delle quali l’ho vissuta nel ’68, quando mi trovavo a Parigi, studente alla Sorbona, dove assorbii la mentalità rivoluzionaria che si viveva all’epoca.

Essendo pedagogista, già da laico, ho lavorato a contatto con ex carcerati e con gruppi giovanili, quindi mi sono sempre trovato in mezzo ai giovani. Sono state queste persone che a trent’anni mi hanno accompagnato nella  scelta per la Compagnia di Gesù. Non mi ha chiamato una Chiesa “trionfante” ma la Chiesa di un Cristo che si trova sulla via del Calvario, cioè a servizio dei poveri. Sono gesuita da quasi 40 anni e la mia congregazione ha avuto fiducia in me, affidandomi apostolati impegnativi, come quello in Romania, iniziato nel 1991, con i bambini di strada a Bucarest. Da tre anni mi occupo dei bambini e delle famiglie rom della Transilvania, che diventati sono la mia “famiglia allargata”.

Quando è arrivato per la prima volta in Romania, nel 1991, quali problematiche sociali ha trovato? Il paese usciva da quarant’anni di comunismo: la fede era sopravvissuta?

Nel paese trovai una grande povertà economica, tanti bambini di strada, gente che non aveva da mangiare, senza energia elettrica ma sempre con una grande fede. I bambini di strada pregano volentieri, si rivolgono a Dio, lo sentono vicino, si sentono parte di una grande famiglia, la Chiesa, non avendo mai avuto una famiglia propria. La Romania è un paese all’80% ortodosso e, nonostante i tanti anni di regime comunista, il cristianesimo è ancora oggi radicato nei cuori della gente. Oggi ci sono grandi possibilità economiche, nuove prospettive politiche e i rumeni si trovano di fronte alla grande sfida di integrarsi politicamente ed economicamente con l’Europa.

Qual è la lezione di vita che ci possono insegnare i poveri come i bambini rumeni di cui lei si occupa?

I bambini di strada e i poveri sono i miei veri maestri: sentono e vivono Dio in maniera preponderante e forte e io sono un po’ alla loro scuola. Ci aprono gli occhi su quello che noi ricchi abbiamo: anche tutto ciò che produciamo e compriamo è un dono di cui ringraziamo Dio. E il ringraziamento è quello che la Chiesa ci insegna attraverso l’Eucaristia, così come i poveri ringraziano noi. I poveri risvegliano in noi il desiderio di aiutarli e questo è un altro dono che riceviamo perché ci apre gli occhi sulle nostre capacità. Un povero mi aiuta a capire quanto bene posso fare ed anche a scoprire quanto Dio è misericordioso con me. Noi viviamo molto più della misericordia di Dio che non delle nostre prestazioni personali. Il mio principale strumento per il lavoro sociale è la Bibbia, la quale ci indica sempre il passo da fare, soprattutto quando ci troviamo nella difficoltà e nella fatica. Nessuno è perduto e Dio ha sempre una sorpresa per noi.

Il suo più celebre confratello gesuita è Jorge Mario Bergoglio, salito al soglio pontificio con il nome di Francesco. Qual è l’insegnamento più grande che questo papa le trasmette?

Questo Papa ha un ministero molto forte e molto radicato ma, al tempo stesso, è un uomo libero. Un principio dei gesuiti è quello di cercare e trovare Dio in ogni cosa. Non dobbiamo pronunciare tante parole ma semplicemente amare gli uomini così come li incontriamo e accoglierli. Come gesuita, vivo la mia condizione di religioso da solo, poiché vivo con i bambini di strada, però mi sento unito alla mia famiglia religiosa, soprattutto con chi ha già raggiunto il Cielo e da lassù prega per me. Noi gesuiti non abbiamo conventi o monasteri, dobbiamo andare dalla gente e stare vicini alla gente. Il vero monastero ce l’abbiamo dentro il cuore. Se siamo veramente uniti al Signore possiamo andare ovunque e vivere questa dimensione claustrale nel nostro cuore e nella nostra vita. Naturalmente questa è una via rischiosa: la libertà è un grande dono, si può usare o se ne può abusare.

Un altro suo illustre confratello è stato il cardinale Carlo Maria Martini, con cui lei ha realizzato il libro <em>Conversazioni notturne a Gerusalemme e di cui ha raccolto il testamento spirituale. Qual è il ricordo che ha di lui?

Ho conosciuto il cardinale Martini quando lui si era già ritirato a vita privata, dopo la conclusione del suo ministero episcopale alla diocesi di Milano. Di lui mi colpì che era un uomo normale e molto umile. Quando lasciò la curia ambrosiana, si ritirò in una piccola comunità di gesuiti a Gerusalemme, condividendo il suo tempo con i suoi giovani confratelli che studiavano la Bibbia. Ha vissuto dunque con la Bibbia e con questi giovani studiosi ma sopratutto ha vissuto in comunione con il Signore Gesù. Era un uomo curioso che ha sempre cercato la via che il Signore gli indicava nella Bibbia che ha sempre ascoltato i giovani. Ha giudicato poco i giovani come chiunque altro e, soprattutto, ha amato tutti come poteva, attraverso la sua persona, cercando di comprendere cosa l’altro vive. Spesso diceva: “Non capisco cosa pensano veramente i giovani ma mi sento ottimista rispetto a loro e prego per loro”. L’attuale papa è un po’ l’esaudimento dei desideri del cardinale Martini. È un fatto stupendamente provvidenziale il fatto che oggi Bergoglio sia papa. Martini e Bergoglio probabilmente non si conoscevano molto ma erano assai vicini nel loro modo di vedere Dio e di amarlo. Tutti e due, poi, amano l’uomo e questa è più grande comunanza che trovo tra loro. Non impongono Dio ma si lasciano sorprendere da Dio, permettendo che Lui plasmi la loro vita e la vita dei giovani.