Un’omelia forte che ha toccato il tema della vera e della falsa libertà e quello della corruzione. Nel corso della celebrazione nella Basilica di San Pietro dei primi Vespri della Solennità di Maria Santissima Madre di Dio e Te Deum di ringraziamento per l’anno trascorso, papa Francesco si è soffermato innanzitutto sul tempo come una realtà non estranea a Dio: esso è, al contrario – come affermava San Pietro Favre – “il messaggero di Dio”.
Da parte sua San Giovanni afferma: “Figlioli, è giunta l’ora” (1Gv 2,18), mentre San Paolo parla di “pienezza del tempo” (Gal 4,4). Il tempo è stato infine “toccato da Cristo”, che ci ha quindi donato “il tempo definitivo di salvezza e di grazia”.
Al termine di ogni anno solare, così come a conclusione di ogni giornata, ha aggiunto il Papa, la Santa Madre Chiesa ci insegna a compiere “un esame di coscienza, attraverso il quale ripercorriamo quello che è accaduto; ringraziamo il Signore per ogni bene che abbiamo ricevuto e che abbiamo potuto compiere e, in pari tempo, ripensiamo alle nostre mancanze e ai nostri peccati”.
Con il suo sacrificio, Gesù Cristo è venuto a riscattarci proprio dalla “schiavitù” del peccato e a “restituirci la perduta condizione filiale”.
Nel nostro esame coscienza dobbiamo quindi domandarci: “Viviamo da figli o da schiavi? Viviamo da persone battezzate in Cristo, unte dallo Spirito, riscattate, libere? Oppure viviamo secondo la logica mondana, corrotta, facendo quello che il diavolo ci fa credere sia il nostro interesse?”.
Il Santo Padre ha quindi sottolineato la paradossale “tendenza a resistere alla liberazione” e la consequenziale “paura della libertà”, alla quale “preferiamo più o meno inconsapevolmente la schiavitù” che riduce il tempo a ‘momento’ e ci svincola da nostro passato e dal nostro futuro, facendoci “credere che non possiamo sognare, volare, sperare”.
È l’Antico Testamento a darci un esempio di tale schiavitù dal peccato, quando ci ricorda la nostalgia da parte degli israeliti dell’Egitto, dove “mangiavano cipolle e aglio” (cfr. Nm, 11,5): per loro, infatti, la libertà aveva avuto il prezzo di una lunghissima “marcia nel deserto con le varie difficoltà e con la fame”.
Così anche nel cuore di noi contemporanei, “si annida la nostalgia della schiavitù, perché apparentemente più rassicurante, più della libertà, che è molto più rischiosa”; siamo come “ingabbiati da tanti fuochi d’artificio, apparentemente belli ma che in realtà durano solo pochi istanti”.
In qualità di Vescovo di Roma, Francesco ha parlato della responsabilità di abitare “nella città eterna”, che per un cristiano significa soprattutto “far parte della Chiesa fondata sulla testimonianza e sul martirio dei Santi Apostoli Pietro e Paolo”.
In questa città e in questa comunità ecclesiale, ha aggiunto il Pontefice, dobbiamo domandarci: “siamo liberi o siamo schiavi, siamo sale e luce? Siamo lievito? Oppure siamo spenti, insipidi, ostili, sfiduciati, irrilevanti stanchi?”.
Accennando alle “gravi vicende di corruzione” che hanno coinvolto la Capitale, il Papa ha esortato i romani a “una seria e consapevole conversione dei cuori per una rinascita spirituale e morale”, come pure ad un “rinnovato impegno per costruire una città più giusta e solidale, dove i poveri, i deboli e gli emarginati siano al centro delle nostre preoccupazioni e del nostro agire quotidiano”.
Una città veramente solidale, ha aggiunto, è chiamata a “difendere i poveri, e non difendersi dai poveri” e a “servire i deboli e non servirsi dei deboli”: essi, infatti, “si rivelano il tesoro della Chiesa e un tesoro nella società”, come testimoniò il diacono e martire romano San Lorenzo.
Quando invece una società “criminalizza” i poveri e li costringe a “mafiarsi” (ovvero a darsi alla delinquenza), essa si “impoverisce fino alla miseria, perde la libertà e preferisce l'aglio e le cipolle della schiavitù”, cessando di “essere cristiana”.
In conclusione, papa Francesco ha chiesto per il popolo cristiano la grazia di “chiedere perdono” e di “poter camminare in libertà per poter così riparare i tanti danni fatti e poter difenderci dalla nostalgia della schiavitù, di non ‘nostalgiare’ la schiavitù”.
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