In questi giorni è stata diffusa la notizia della sospensione delle cure per il mantenimento delle attività fisiologiche ad una donna ormai morta ma incinta, con un feto vivo. I sette periti medici del tribunale hanno sentenziato secondo scienza e coscienza che la prosecuzione della vita biologica della donna non avrebbe potuto salvare il feto. È avvenuto in Irlanda. Lì l’ottavo emendamento alla Costituzionericonosce e garantisce il diritto alla vita del feto non ancora nato, col dovuto rispetto verso l’eguale diritto alla vita della madre. L’emendamento è del 1983 e fu approvato dopo un referendum popolare. È una contraddizione una legge che garantisce la vita del feto e la decisione di sospendere le cure al corpo materno che lo ospita? Vedremo che non lo è, in questo caso; e per questo approfondiamo la questione.

Vediamo le motivazioni date dal giudice che ha fatto sospendere le cure secondo la richiesta dei familiari: le cure sono state sospese non “per far morire il feto”, ma perché inutili; perché, visto il livello di deterioramento della vita fisiologica materna, il feto non sarebbe arrivato a nascere e sopravvivere. Anche le autorità ecclesiali irlandesi non hanno eccepito su questo fatto, che assolutamente non rientra nel campo dell’eutanasia, e non rientra nel campo dell’aborto. Rientra nel campo triste ma accettabile della sospensione delle cure che non servono a niente.

È interessante sottolineare che gli stessi giudici che hanno preso questa decisione hanno affermato il diritto alla vita del feto, al punto che se nel futuro il feto in gestazione fosse ad un livello di sviluppo più avanzato e quindi con possibilità di farcela, il feto avrebbe assolutamente il supporto della legge per veder nel suo interesse prolungate le attività fisiologiche del corpo della mamma.

Ho pubblicato da poco una monografia su questo tema, intitolata: “Gravidanza nel corpo di una madre morta e i limiti dell’autorità dei suoi parenti” (Pregnancy in a dead mother, and the limits of her relatives’ authority”- Research and Development, 2014). In questo studio spiegavo che la prosecuzione della vita biologica di una donna morta e incinta, non solo va nell’interesse del feto, ma paradossalmente anche nell’interesse della donna. Infatti, anche chi sostiene la liceità dell’interruzione di gravidanza, deve ammettere che questa - dove è ammessa - lo è in ragione del desiderio della donna; e nel caso di una donna morta e incinta, questa non ha mai detto di non volere quella gravidanza, anzi si trattava di un fatto cui era profondamente legata; quindi interrompere la vita biologica materna interrompendo così la gravidanza andrebbe contro la libertà di scelta della donna, e dunque contro i principi dei sostenitori dell’aborto.

I familiari di una donna in queste condizioni non possono far altro che prenderne atto, e non dovrebbero travalicare questo principio.

Deve essere chiaro che non ogni feto che si trova in queste condizioni può essere salvato, e in questo caso continuare a far “funzionare” il corpo morto della madre non ha senso. Per potersi salvare, il feto deve essere vitale e non danneggiato profondamente in modo che lo rende incompatibile con la vita; e deve essere arrivato ad uno sviluppo (o deve aver la possibilità realistica di arrivarci vivo) tale da render possibile la vita dopo la nascita. Il feto in questione non poteva salvarsi neanche prolungando la vita biologica materna, secondo il parere oggettivo dei medici interpellati dal tribunale.

Dunque la vita del feto è un valore da garantire, ma dentro i limiti delle umane possibilità. Perciò è un dolore ma non uno scandalo che di fronte all’impossibile ci si debba arrendere.