La pace è dono di Dio, diceva padre Raniero Cantalamessa nella prima predica di Avvento di venerdì scorso. Ma la pace – aggiunge oggi nella seconda dinanzi al Papa e alla Curia – è anche “compito e impegno per cui lavorare”.
È un impegno perché tutti i cristiani sono chiamati a divenire “canali attraverso i quali la pace di Dio possa raggiungere i fratelli”. “Beati gli operatori di pace”, esclamava Cristo, usando un termine, eirenopoioi, che non significa “pacifici”, bensì “pacificatori”, persone, cioè, “che lavorano per la pace”.
Una pace, quella predicata dal Signore, in antitesi con quella propinata dal mondo. Con quella che, ad esempio, un altro grande uomo proclamava nella stessa epoca di Gesù: Cesare Augusto, il quale nell’“Indice delle proprie imprese” affermava di aver stabilito nel mondo la pace di Roma “mediante vittorie”.
Anche quella di Gesù Cristo “è una pace frutto di vittorie”, sottolinea Cantalamessa. Vittorie, però, “su se stessi, non sugli altri”, “vittorie spirituali, non militari”. Come scriveva san Paolo, Gesú sulla Croce “ha distrutto l’inimicizia, non il nemico”.
Ed è proprio questa l’idea di pace che dovrebbe valere, non solo nell’ambito di fede, ma anche in quello politico. Perché oggi – osserva il predicatore della Casa Pontificia – “vediamo chiaramente che l’unica via alla pace è di distruggere l’inimicizia, non il nemico. I nemici, infatti, si distruggono con le armi, l’inimicizia con il dialogo”.
Il problema è che al fondo di certi conflitti in corso, “apparentemente insanabili”, c’è proprio “la volontà e la segreta speranza di arrivare un giorno a distruggere il nemico”. Ma “il sangue dei nemici è seme di altri nemici: anziché distruggerli, li moltiplica”, afferma Cantalamessa parafrasando Tertulliano.
Un modo allora (spesso l’unico) di essere eirenopoioi, è di pregare per la pace. Perché “quando non è più possibile agire sulle cause seconde, possiamo sempre, con la preghiera, agire sulla causa prima”, dice padre Raniero.
E la causa prima di una mancata pace spesso è un mancato dialogo tra le religioni. Promuovere la pace tra le religioni è divenuto infatti “un campo di lavoro nuovo, difficile e urgente”.
Parlando poi della pace tra religioni, per il predicatore della Casa Pontificia è “doveroso” fare un cenno alla pace tra Israele e la Chiesa. Papa Francesco stesso, nella Evangelii Gaudium, parla di “una ricca complementarietà che ci permette di leggere insieme i testi della Bibbia ebraica e aiutarci vicendevolmente a sviscerare le ricchezze della Parola”, come pure di “condividere molte convinzioni etiche e la comune preoccupazione per la giustizia e lo sviluppo dei popoli”.
Anche san Paolo, nella Lettera agli Efesini, definiva la pace tra giudei e gentili come la prima realizzata da Gesú sulla Croce. L’iconografia cristiana ha interpretato poi in due modi le parole dell’Apostolo. Un esempio è il crocifisso di San Damiano, dove due donne ai lati del crocifisso raffigurano “una la Sinagoga e l’altra la Chiesa, unite, non separate, dalla croce di Cristo”. Icone più tardive della scuola di Dionisij, invece, rappresentavano sempre due donne, solo che una, la Chiesa, è sospinta da un angelo verso la croce, l’altra cacciata da un angelo fuori da essa.
La prima immagine è dunque “l’ideale e l’intenzione divina, come espressa da san Paolo”, sottolinea padre Cantalamessa; la seconda, invece, “come sono andate, purtroppo, le cose nella realtà della storia”. Grazie a Dio – osserva – “oggi, almeno nello spirito, siamo tutti per la visione del crocifisso di San Damiano e non per quella opposta. Vogliamo che la croce di Cristo serva a riavvicinare tra loro ebrei e cristiani, non a contrapporli e che la celebrazione della croce del Venerdì Santo favorisca, anziché ostacolare, questo dialogo fraterno”.
Piccoli passi, insomma, per raggiungere grandi risultati. Lo slogan d’altronde è “Think globally, act locally. Pensa globalmente, agisci localmente”. “Bisogna pensare alla pace mondiale, ma agire per la pace a livello locale”, rimarca padre Raniero. La pace infatti non si fa come la guerra che necessita di lunghi preparativi, eserciti, strategie, alleanze. E “guai a chi volesse cominciare per primo, da solo e alla spicciolata; sarebbe votato a sicura disfatta”.
La pace si fa “cominciando subito, per primi, anche uno solo, anche con una semplice stretta di mano”. Si fa “artigianalmente”, dice Papa Francesco. Perché “come miliardi di gocce d’acqua sporca non faranno mai un oceano pulito, così miliardi di uomini senza pace e di famiglie senza pace non faranno mai un’umanità in pace”.
Per costruire questa pace, inoltre, non bisogna puntare solo ai “lontani”, ma anche e soprattutto ai “vicini”. “Come possiamo, noi cristiani, dirci promotori di pace, se poi litighiamo tra di noi?”, domanda infatti il cappuccino, riferendosi alle divisioni tra gli appartenenti alla stessa Chiesa cattolica, a causa di tradizioni, tendenze o riti diversi.
Non a caso il tema della Giornata mondiale per la pace di quest’anno è “Fraternità, fondamento e via per la pace”. Una fraternità che si impara nella “famiglia”, intesa non solo come quella di carne ma anche come le diverse realtà della Chiesa: famiglie religiose, comunità parrocchiali, Sinodo dei vescovi, Curia romana…. “Voi siete tutti fratelli!, ci ha detto Gesú, e se questa parola non si applica all’interno della Chiesa, nel cerchio più stretto dei suoi ministri, a chi si applica?”, insiste Cantalamessa.
Modello di fraternità è quello presentato dagli Atti degli apostoli che narra una comunità che viveva con “un cuore solo e un’anima sola”. Per i discepoli, tuttavia, questo avvenne solo dopo la Pentecoste, prima essi “discutevano spesso chi tra loro fosse il più grande”. “La venuta dello Spirito Santo li trasformò completamente, li decentrò da se stessi e li ricentrò su Cristo”.
Nell’episodio biblico della Pentecoste, si vedono infatti i dodici intenti a costruire una città, “la città di Dio che è la Chiesa”. Non, però, “per farsi un nome” e diventare famosi, come invece aspiravano i “pii e religiosi” uomini di Babele; gli Apostoli “sono completamente assorbiti dal desiderio di glorificare Dio, si sono dimenticati di se stessi e di farsi un nome”, evidenzia Cantalamessa.
Una differenza fondamentale, questa, a cui si ispirò Sant’Agostino per parlare di due città: “la città di Satana che si chiama Babilonia e la città di Dio che si chiama Gerusalemme”, la prima “costruita sull’amore di sé fino al disprezzo di Dio”, l’altra “sull’amore di Dio fino al sacrificio di se stessi”.
Queste due città “sono due cantieri aperti fino alla fine del mondo” – sottolinea padre Cantalamessa –; ognuno di noi “deve scegliere in quale dei due vuole impiegare la sua vita”.
I dodici discepoli la loro scelta l’hanno fatta tracciando dunque “il modello per ogni assemblea di Chiesa”. Anche per la stessa Curia Romana. “Quale dono per la Chiesa se essa fosse un esempio di fraternità!”, esclama il predicatore della Casa Pontificia; “lo è già – soggiunge – almeno molto più di quanto il mondo e i suoi media vogliono far credere; ma può diventarlo sempre di più”.
Con l’aiuto dello Spirito Santo, bisogna “rimettere ogni giorno al centro delle proprie intenzioni Gesù e il bene della Chiesa, e non il trionfo della propria opinione personale”. “Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso…”, esortava infatti san Paolo i suoi cari fedeli di Filippi. Parole che “sono sicuro – conclude padre Raniero – che esprimono anche il desiderio del Santo Padre, nei confronti dei suoi collaboratori e di
tutti noi”.
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