Riportiamo di seguito il testo della Seconda Predica di Avvento 2014, tenuta questa mattina in Vaticano da padre Raniero Cantalamessa, ofmcap., predicatore della Casa Pontificia.
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Dopo aver meditato, nella prima predica, sulla pace come dono di Dio, riflettiamo ora sulla pace come compito e impegno per cui lavorare. Siamo chiamati a imitare l’esempio di Cristo, divenendo dei canali attraverso i quali la pace di Dio possa raggiungere i fratelli. È il compito che Gesú indica ai suoi discepoli quando proclama: “Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5, 9 ). Il termine eirenopoioi non significa i “pacifici” (questi appartengono alla beatitudine dei miti, dei non violenti); significa piuttosto “pacificatori”, cioè persone che lavorano per la pace.
1. La pace di Gesú e quella di Cesare Augusto
Gesú non ci ha solo esortati a essere operatori di pace, ma ci ha anche insegnato, con l’esempio e la parola, come si diventa operatori di pace. Dice ai suoi discepoli: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi” (Gv 14, 27). In quello stesso tempo, un altro grande uomo proclamava al mondo la pace. In Asia Minore è stata ritrovata una copia del famoso “Indice delle proprie imprese” di Cesare Augusto. In esso l’imperatore romano, tra le grandi imprese da lui compiute, pone anche quella di aver stabilito nel mondo la pace di Roma, una pace, è scritto, “ottenuta mediante vittorie” (parta victoriis pax) [1].
Gesù rivela che esiste un altro modo di operare per la pace. Anche la sua è una “pace frutto di vittorie”, ma vittorie su se stessi, non sugli altri, vittorie spirituali, non militari. Sulla croce, scrive san Paolo, Gesú “ha distrutto in se stesso l’inimicizia” (Ef 2,16): ha distrutto l’inimicizia, non il nemico, l’ha distrutta in se stesso, non negli altri.
La via alla pace proposta dal Vangelo non ha senso solo nell’ambito della fede; vale anche nell’ambito politico. Oggi vediamo chiaramente che l’unica via alla pace è di distruggere l’inimicizia, non il nemico. I nemici si distruggono con le armi, l’inimicizia con il dialogo. Ho letto che qualcuno rimproverò un giorno ad Abramo Lincoln di essere troppo cortese con i propri avversari politici e gli ricordò che il suo dovere di presidente era piuttosto di distruggerli. Egli rispose loro: “Non distruggo forse i miei nemici quando me li faccio amici?”
È la situazione del mondo che reclama drammaticamente che si cambi il metodo di Augusto con quello di Cristo. Che cosa c’è al fondo di certi conflitti apparentemente insanabili, se non appunto la volontà e la segreta speranza di arrivare un giorno a distruggere il nemico? Purtroppo, vale anche per i nemici quello che Tertulliano diceva dei primi cristiani perseguitati: “Semen est sanguis chritianorum”: il sangue dei cristiani è seme di altri cristiani. Anche il sangue dei nemici è seme di altri nemici; anziché distruggerli, li moltiplica.
“Non possiamo rassegnarci – ha detto il papa nella recente visita in Turchia, riferendosi alla situazione in Medio Oriente – alla continuazione dei conflitti, come se non fosse possibile un cambiamento in meglio della situazione! Con l’aiuto di Dio, possiamo e dobbiamo sempre rinnovare il coraggio della pace!” Un modo – spesso l’unico che ci rimane – di essere operatori di pace, è di pregare per la pace. Quando non è più possibile agire sulle cause seconde, possiamo sempre, con la preghiera, “agire sulla causa prima”. La Chiesa non si stanca di farlo ogni giorno nella Messa con quell’accorata invocazione: “Concedi, Signore, la pace ai nostri giorni”, da pacem Domine in diebus nostris.
Oltre che alla pace politica, il Vangelo può contribuire anche alla pace sociale. Si ripete spesso l’affermazione del profeta Isaia: “La pace è frutto della giustizia” (Is 32,17). La “Evangelii gaudium” mette, a questo riguardo, il dito sulla piaga e denuncia, senza mezzi termini, quella che è oggi la maggiore ingiustizia che ostacola la pace. Dice:
“La pace sociale non può essere intesa come irenismo o come una mera assenza di violenza ottenuta mediante l’imposizione di una parte sopra le altre. Sarebbe parimenti una falsa pace quella che servisse come scusa per giustificare un’organizzazione sociale che metta a tacere o tranquillizzi i più poveri, in modo che quelli che godono dei maggiori benefici possano mantenere il loro stile di vita senza scosse mentre gli altri sopravvivono come possono. Le rivendicazioni sociali, che hanno a che fare con la distribuzione delle entrate, l’inclusione sociale dei poveri e i diritti umani, non possono essere soffocate con il pretesto di costruire un consenso a tavolino o un’effimera pace per una minoranza felice. La dignità della persona umana e il bene comune stanno al di sopra della tranquillità di alcuni che non vogliono rinunciare ai loro privilegi”.[2]
2. Pace tra le religioni
Davanti agli operatori di pace, si apre oggi un campo di lavoro nuovo, difficile e urgente: promuovere la pace tra le religioni. Il Parlamento mondiale delle religioni, nella seduta di Chicago del 1993, ha lanciato questo proclama: “Non c’è pace tra le nazioni senza pace tra le religioni e non c’è pace tra le religioni senza dialogo tra le religioni”.
Il motivo di fondo che permette un dialogo leale tra le religioni è che “abbiamo tutti un unico Dio”. Il papa san Gregorio VII , nell’anno 1076, scriveva a un principe musulmano del Nord Africa: “Noi crediamo e confessiamo un solo Dio, anche se in modo diverso, ogni giorno lo lodiamo e veneriamo come creatore dei secoli e governatore di questo mondo”.[3] È la verità da cui anche san Paolo partì nel suo discorso all’areopago di Atene: “In lui tutti viviamo, ci moviamo, e siamo” (cfr. At 17,28).
Abbiamo, soggettivamente, idee diverse su Dio. Per noi cristiani, Dio è “il Padre del Signore nostro Gesù Cristo” che non si conosce pienamente se non “per mezzo di lui”; ma oggettivamente, sappiamo bene che di Dio non ce ne può essere che uno. Ogni popolo e lingua ha il suo nome e la sua teoria circa il sole, alcune più esatte, altre meno, ma di sole ce n’è uno solo!
Fondamento teologico del dialogo è anche la nostra fede nello Spirito Santo. Come Spirito della redenzione e Spirito della grazia, egli è il vincolo della pace tra i battezzati delle diverse confessioni cristiane; ma come Spirito della creazione, o Spirito creatore, egli è un vincolo di pace tra i credenti di tutte le religioni e anzi tra tutti gli uomini di buona volontà. “Ogni verità, da chiunque venga detta – ha scritto san Tommaso d’Aquino –, viene dallo Spirito Santo”7. Come questo Spirito creatore guidava verso Cristo i profeti dell’Antico Testamento (1Pt 1,11), così noi cristiani crediamo che, in modo noto solo a Dio, esso guida a Cristo e al suo mistero pasquale le persone che vivono fuori della Chiesa (cf. Gaudium et spes, 22).
Parlando della pace tra le religioni, è doveroso dedicare un pensiero a parte alla pace tra Israele e la Chiesa. Anche il papa, nella “Evangelii gaudium”, rivolge una attenzione particolare a questo dialogo e conclude con queste parole:
“Sebbene alcune convinzioni cristiane siano inaccettabili per l’Ebraismo, e la Chiesa non possa rinunciare ad annunciare Gesù come Signore e Messia, esiste una ricca complementarietà che ci permette di leggere insieme i testi della Bibbia ebraica e aiutarci vicendevolmente a sviscerare le ricchezze della Parola, come pure di condividere molte convinzioni etiche e la comune preoccupazione per la giustizia e lo sviluppo dei popoli” (EG, 247).
Quella tra giudei e gentili è, per Paolo, la prima pace che Gesú ha realizzato sulla croce. Scrive nella Lettera agli Efesini:
“Egli infatti è la nostra pace,
colui che di due ha
fatto una cosa sola,
abbattendo il muro di separazione che li divideva,
cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne.
Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti,
per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo,
facendo la pace,
e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo,
per mezzo della croce,
distruggendo in se stesso l’inimicizia.” (Ef 2, 14-16).
Questo testo ha dato luogo, nella tradizione cristiana, a due diverse e opposte rappresentazioni iconografiche. In una, si vedono due donne, entrambe rivolte verso il crocifisso. È il caso del crocifisso di San Damiano in Assisi. In esso le due donne ai lati delle mani del crocifisso – contrariamente alle spiegazioni che si danno di solito – non sono due angeli (non portano ali e sono figure femminili); rappresentano invece, secondo la più genuina visione della Lettera agli Efesini, una la Sinagoga e l’altra la Chiesa, unite, non separate, dalla croce di Cristo.
Basta, per convincersene, confrontare questa icona con quella più tardiva della scuola di Dionisij (sec. XV) dove si vedono ancora due donne, ma una, la Chiesa, sospinta da un angelo verso la croce, l’altra cacciata da un angelo fuori da essa.
La prima immagine rappresenta l’ideale e l’intenzione divina, come espressa da san Paolo; la seconda rappresenta come sono andate, purtroppo, le cose nella realtà della storia. Una volta ho mostrato a un rabbino ebreo mio amico le due immagini. Quasi commosso, ha commentato: “Forse la storia dei nostri rapporti sarebbe stata diversa se, anziché la seconda, avesse prevalso la prima visione”. La fedeltà alla storia ci obbliga a dire che, se non è stato così, almeno all’inizio, ciò non è dipeso solo dai cristiani.
Dobbiamo rallegrarci e ringraziare Dio che oggi, almeno nello spirito, siamo tutti per la visione del crocifisso di San Damiano e non per quella opposta. Vogliamo che la croce di Cristo serva a riavvicinare tra loro ebrei e cristiani, non a contrapporli; che anche la celebrazione della croce del Venerdì Santo favorisca, anziché ostacolare, questo dialogo fraterno.
3. Think globally, act locally
Uno slogan oggi assai di moda dice: “Think globally, act locally”: pensa globalmente, agisci localmente. Esso vale in modo particolare per la pace. Bisogna pensare alla pace mondiale, ma agire per la pace a livello locale. La pace non si fa come la guerra. Per fare la guerra, occorrono lunghi preparativi: formare grossi eserciti, predisporre strategie, sancire alleanze e poi muovere compatti all’attacco. Guai a chi volesse cominciare per primo, da solo e alla spicciolata; sarebbe votato a sicura disfatta.
La pace si fa esattamente al contrario: cominciando subito, per primi, anche uno solo, anche con una semplice stretta di mano. La pace si fa, diceva papa Francesco in una circostanza recente, “artigianalmente”. Come miliardi di gocce d’acqua sporca non faranno mai un oceano pulito, così miliardi di uomini senza pace e di famiglie senza pace non faranno mai un’umanità in pace.
Anche noi che siamo qui riuniti dobbiamo fare qualcosa per essere degni di parlare di pace. Gesú, scrive ancora l’Apostolo, è venuto ad annunciare “pace ai lontani e pace ai vicini” (Ef 2,18). La pace con “i vicini” è spesso più difficile che non la pace con “i lontani”. Come possiamo, noi cristiani, dirci promotori di pace, se poi litighiamo tra di noi? Non mi riferisco, in questo momento, alle divisioni tra cattolici, ortodossi, protestanti, pentecostali, cioè tra le varie denominazioni cristiane; mi riferisco alle divisioni che spesso esistono tra gli appartenenti alla nostra stessa chiesa cattolica, a causa di tradizioni, tendenze o riti diversi.
Ricordiamo le parole severe dell’Apostolo ai Corinzi:
“Ora, fratelli, vi esorto, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, ad aver tutti un medesimo parlare e a non aver divisioni tra di voi, ma a stare perfettamente uniti nel medesimo modo di pensare e di sentire. Infatti, fratelli miei, mi è stato riferito da quelli di casa Cloe che tra di voi ci sono contese. Voglio dire che ciascuno di voi dichiara: «Io sono di Paolo»; «io, di Apollo»; «io, di Cefa»; «io, di Cristo». Cristo è forse diviso? Paolo è stato forse crocifisso per voi?” (1 Cor 1, 10-12).
Il tema della Giornata mondiale per la pace dell’anno in corso è “Fraternità, fondamento e via per la pace”. Cito le prime parole del messaggio:
“La fraternità è una dimensione essenziale dell’uomo, il quale è un essere relazionale. La viva consapevolezza di questa relazionalità ci porta a vedere e trattare ogni persona come una vera sorella e un vero fratello; senza di essa diventa impossibile la costruzione di una società giusta, di una pace solida e duratura”.
Il testo addita nella famiglia il primo ambito in cui si costruisce e si impara a essere fratelli. Ma il messaggio si applica anche ad altre realtà della Chiesa: alle famiglie religiose, alle comunità parrocchiali, al sinodo dei vescovi, alla curia romana. “Voi siete tutti fratelli!” (Mt 23, 8), ci ha detto Gesú, e se questa parola non si applica all’interno della Chiesa, nel cerchio più stretto dei suoi ministri, a chi si applica?
Gli Atti degli apostoli ci presentano il modello di una comunità veramente fraterna, “concorde”, cioè con “un cuore solo e un’anima sola” (At 4, 32). Certo, tutto questo non si può realizzare se non “per lo Spirito Santo”. Così avvenne anche per gli apostoli. Prima della Pentecoste essi non erano un cuore solo e un’anima sola; discutevano spesso chi tra loro fosse il più grande e più meritevole di sedere alla destra e alla sinistra di Gesù. La venuta dello Spirito Santo li trasformò completamente; li decentrò da se stessi e li ricentrò su Cristo.
I Padri antichi e la liturgia hanno compreso l’intenzione di Luca, di creare, nel racconto di Pentecoste, un parallelismo tra quello che avviene a Pentecoste e quello che era avvenuto a Babele. Non sempre però si coglie il messaggio contenuto in questo accostamento. Perché a Babele tutti parlano la stessa lingua e a un certo punto nessuno capisce più gli altri, mentre a Pentecoste, pur parlando tutti lingue diverse (parti, elamiti, cretesi, arabi…), ognuno capisce gli apostoli?
Anzitutto una precisazione. I costruttori della torre di Babele non erano degli atei che volevano sfidare il cielo, ma uomini pii e religiosi che volevano costruire uno di quei templi a terrazze sovrapposte, detti zikkurat, di cui restano ancora rovine in Mesopotamia. Questo li rende più vicini a noi di quanto immaginiamo. Dov’è allora il loro grande peccato? Essi si accingono all’opera dicendo tra di loro:
“Venite, facciamo dei mattoni cotti con il fuoco… Costruiamoci una città e una torre la cui cima giunga fino al cielo; acquistiamoci fama, affinché non siamo dispersi sulla faccia di tutta la terra” (Gen 11, 3-4).
Vogliono costruire un tempio alla divinità, ma non per la gloria della divinità; per diventare famosi, per farsi un nome, non per fare un nome a Dio. Dio è strumentalizzato, deve servire alla loro gloria. Anche gli apostoli, a Pentecoste, iniziano a costruire una città e una torre, la città di Dio che è la Chiesa, ma non più per farsi un nome, ma per farlo a Dio: “Li sentiamo proclamare nelle nostre lingue, esclamano i presenti, le grandi opere di Dio” (At 2, 11). Sono completamente assorbiti dal desiderio di glorificare Dio, si sono dimenticati di se stessi e di farsi un nome.
Sant’Agostino ha tratto da qui lo spunto per la sua grandiosa opera La Città di Dio. Esistono, dice, due città nel mondo: la città di Satana che si chiama Babilonia e la città di Dio che si chiama Gerusalemme. L’una è costruita sull’amore di sé fino al disprezzo di Dio, l’altra sull’amore di Dio fino al sacrificio di se stessi. Queste due città sono due cantieri aperti fino alla fine del mondo e ognuno deve sceglier
e in quale dei due vuole impiegare la sua vita.
Ogni iniziativa, anche la più spirituale, come è, per esempio, la nuova evangelizzazione, può essere o Babele o Pentecoste. (Anche, naturalmente, questa meditazione che io sto dando). È Babele se ognuno con essa cerca di farsi un nome; è Pentecoste, se a dispetto del sentimento naturale di riuscire e ricevere approvazione, si rettifica costantemente la propria intenzione, ponendo la gloria di Dio e il bene della Chiesa al di sopra di tutti i propri desideri. Alle volte giova ripetere a se stessi le parole che un giorno Gesú pronunciò davanti ai suoi avversari: “Io non cerco la mia gloria!” (Gv 8, 50).
Lo Spirito Santo non annulla le differenze, non appiana automaticamente le divergenze. Lo vediamo in ciò che succede subito dopo la Pentecoste. Dapprima sorge la divergenza circa la distribuzione dei viveri alle vedove, poi quella ben più seria se, e a quali condizioni, accogliere nella Chiesa i pagani. Ma non vediamo per questo formarsi tra di loro partiti o schieramenti. Ognuno esprime la propria convinzione con rispetto e libertà; Paolo va a Gerusalemme a consultare Pietro e in altra occasione non ha timore di fargli notare una incoerenza (cf. Gal 2,14). Questo consente loro, al termine del dibattito di Gerusalemme, di annunciare il risultato alla Chiesa con le parole: “È parso bene allo Spirito Santo e a noi…” (At 15, 28).
È stato tracciato così il modello per ogni assemblea di Chiesa. Con una differenza dovuta al fatto che lì ci troviamo nella fase embrionale in cui non si sono ancora delineati chiaramente i diversi ministeri e non si è ancora preso atto (non ce n’era stato né il tempo né il bisogno), del primato conferito a Pietro, per cui spetta a lui di fare la sintesi e dire l’ultima parola.
Accennavo alla Curia. Quale dono per la Chiesa se essa fosse un esempio di fraternità! Lo è già, almeno molto più di quanto il mondo e i suoi media vogliono far credere; ma può diventarlo sempre di più. La diversità di opinioni, abbiamo visto, non deve essere un ostacolo insormontabile. Basta, con l’aiuto dello Spirito Santo, rimettere ogni giorno al centro delle proprie intenzioni Gesù e il bene della Chiesa, e non il trionfo della propria opinione personale. San Giovanni XXIII, nell’enciclica “Ad Petri Cathedram” del 1959, usò una frase famosa, di origine incerta, ma di perenne attualità: “In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus vero caritas”: nelle cose necessarie, unità; nelle cose dubbie, libertà, in tutte però la carità.
“Se dunque v’è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d’amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione, rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento. Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri” (Fil 2, 1-4).
Sono parole rivolte da san Paolo ai suoi cari fedeli di Filippi, ma sono sicuro che esprimono anche il desiderio del Santo Padre, nei confronti dei suoi collaboratori e di tutti noi.
Concludiamo con la preghiera che la liturgia ci fa recitare nella Messa votiva per la pace: “O Dio, che chiami tuoi figli gli operatori di pace, fa’ che noi, tuoi fedeli, lavoriamo senza stancarci per promuovere la giustizia che sola può garantire una pace autentica e duratura. Per Cristo Nostro Signore. Amen”.
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NOTE
[1] Monumentum Ancyranum, ed. Th. Mommsen, 1883.
[2] Evangelii gaudium, 218.
[3] Cit. da M. Introvigne, Benedetto XVI e l’islam, un magistero da riscoprire, in “La nuova bussola quotidiana” del 12, Agosto 2014 (Quotidiano online).