La devozione di fra Tommaso al Sacro Cuore

La spiritualità del mistico bergamasco negli studi di un giovane cappuccino negli anni ’50

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Negli anni Cinquanta, il ventisettenne Badan, cappuccino veneto, studente in dogmatica alla Gregoriana di Roma, preparò una “esercitazione di licenza” avente per tema l’alta spiritualità del mistico bergamasco e per titolo «La devozione alla Passione di Cristo».

In vista poi del quarto centenario della nascita del mistico di Olera (1563-1963), esaminando con acribia i suoi Scritti, Badan affrontò con maggior ampiezza il tema della devozione di fra Tommaso al Sacro Cuore con lo studio «Un precursore di Paray-le-Monial».

«Il cuore aperto è per fra Tommaso – assicura – il riassunto della Passione, il culmine di tutta la Redenzione. Dolori fisici e patimenti morali, tutto si riflette e si rifugia nel cuore: tutte le ferite e percosse che patì Christo in tutte le parti del suo Corpo, et anco dell’Anima, tutte il Cuore di Christo le sentiva e le pativa …. Nel cuore di Cristo s’incontrano la bontà divina e la cattiveria umana … La contemplazione della Passione diventa, nel cuore di Cristo, intima partecipazione all’amore-dolore del Salvatore».

Ciò premesso, Badan s’addentra in un’analisi (in breve) sulla sua devozione al Sacro Cuore in relazione al contenuto teologico. Prima di tutto, l’oggetto materiale: il cuore di cui parla fra Tommaso non è il cuore simbolo dell’amore, ma è lo stesso cuore di carne: «Era l’Humanità del Figliol d’Iddio nobilissima … e, tra tutti i membri, il Cuore era il più nobile. Il cuore di Cristo è quindi degno d’essere compassionato, lodato e adorato sopra ogni altro membro del suo corpo. Nel cuore infatti si rifugiano tutti i dolori».

Aggiunge un passo ulteriore ed illuminante, sempre tratto dai suoi Scritti: «Se il capo del Redentore, coronato di spine, se le mani e i piedi, trapassati dai chiodi, soffrono dolori inesprimibili, il Cuore del mio diletto e dolcissimo Giesù ha pure sentito i chiodi dei piedi e delle mani e le spine del capo. I tormenti di ciascuna parte del suo corpo si ripercuotono nel suo Cuore … Il Cuore di Dio era la sedia di tutti li dolori e, come i fiumi corrono al mare, così tutte le sofferenze si precipitavano verso il Cuore».

Passa quindi a parlare dell’oggetto formale della devozione di fra Tommaso al Sacro Cuore: l’amore umano e divino di Cristo per gli uomini, amore simboleggiato dal cuore: «Se il sangue di Christo fu sangue d’amore, col quale redemì l’uomo, questo che sparse dal suo Cuore fu l’ultimo suggello dell’amore suo. Il concetto viene illustrato con un esempio…: paragona Cristo ad un mercante che, a dimostrazione della sua generosità, vuota completamente la sua borsa nelle mani di un povero…: il cuore di Cristo è la borsa».

«In conclusione – riassume il saggista -: abbiamo qui gli elementi costitutivi della devozione al S. Cuore, come oggi è ammessa dalla Chiesa. Si può quindi considerare fra Tommaso come precursore, nel senso che egli la praticò e propagò in un contesto teologico corrispondente a quello delineato dai documenti pontifici più recenti (Pio XI, Miserentissimus Redemptor; Pio XII, Haurietis acquas)». Sta ricordando l’enciclica di papa Ratti dell’8 maggio 1928 e quella di papa Pacelli del 15 maggio di cinquant’anni fa (1956-2006).

Badan continua, ricordando i fattori ascetici della devozione di fra Tommaso al Sacro Cuore. «Oltre ad un contenuto dottrinale – dice – la devozione presenta dei fattori ascetici, che quasi costituiscono la risposta dell’anima all’amore-dolore del Cuore di Gesù. Viene in primo luogo un sentimento di riconoscenza. Chi ha capito quanto il Cuore di Cristo abbia amato gli uomini e sofferto per loro, sente nascere un vivo bisogno di ricambiare…: anima mia prometti di dare il tuo cuore per amore di chi lo diede per amor tuo».

Dalla riconoscenza si passa alla compassione. «Se il Cuore di Cristo è il cuore che di uno ama – scrive – è pure il cuore di uno che soffre. Merita perciò la compassione di chi ha causato tale sofferenza: tu, sopra d’esso (cuore) fa un lungo lamento, piangi, lava quella ferita con le lacrime, e fa che penetrino dentro di quel Cuore. Il sentimento dominante però è quello della riparazione. L’uomo, non corrispondendo all’amore generoso di Dio, commette una grave ingiuria, che si ripercuote vivamente sul cuore dell’Uomo-Dio».

Fra Tommaso allora pone sulle labbra di Cristo queste parole: «Ritorna al tuo Liberatore, il quale con tanta pietà t’aspetta a penitenza; e non temere, anima, perché son ferito, impiagato per tuo amore et il mio Cuore è trafitto». Badan conclude così: «Come si vede, è solamente il bisogno di espiare la propria colpa e compensare la propria ingratitudine, e non ancora il sentimento di riparazione per gli altri: ciò che sarà messo in evidenza particolarmente da s. Margherita-Maria Alacoque (con le sue rivelazioni: 1673-75)».

Nelle prime pagine de La mia vita – autobiografia, Benedetto XVI ricorda con particolare interesse un bavarese esemplare, il frate cappuccino Corrado da Parzham, «portinaio santo» (1818-1894), che raggiunse la gloria del Bernini negli anni Trenta con Pio XI.

Riflette sul santo di Altötting: «In quest’uomo, umile e devoto, noi vedevamo incarnato il meglio della nostra gente, condotta dalla fede alla realizzazione delle sue più belle possibilità. In seguito, mi sono ritrovato spesso a riflettere su questa straordinaria circostanza, per cui la Chiesa nel secolo del progresso e della fede nella scienza si è vista rappresentata al meglio proprio da persone semplicissime, come Bernadette di Lourdes o, appunto, frate Corrado, che non sembravano sfiorati dalle correnti della storia».

«È forse un segno che la Chiesa ha perso la sua capacità di incidere sulla cultura e riesce a far presa solo al di fuori dell’autentico flusso della storia? O è un segno che la capacità di cogliere con immediatezza ciò che conta davvero è data ancor oggi ai più piccoli, cui è concesso quello sguardo che, invece, tanto spesso manca ai “sapienti e agli intelligenti” (cfr. Mt 11,25)? Sono davvero convinto che proprio questi santi “piccoli” siano un grande segno per il nostro tempo, che mi tocca tanto più profondamente, quanto più vivo con esso ed in esso».

Con questa autorevole premessa e per una puntuale verifica delle parole del Papa, gustiamo il sapore delle parole che scrisse fra Tommaso, l’idiot savant, negli anni Venti del suo secolo, il Seicento, in forte contrasto con la retorica pesante di quel periodo.

«O inefabile e innenarabile e investigabile e incomprensibile Dio de l’anima mia, io poverino indegno de levar li ochi a la maestà vostra, degno de l’inferno, avendo io scritto una minima particella della vostra vita e morte e assensione, genuflesso a’ piedi di voi, o mio misericordioso Dio, prego la vostra maestà per la vostra dura morte, per l’assensione vostra, vogliate rimirare me, vilissima creatura, con l’occhio della vostra pietà, non rimirando a’ demeriti mie, ma rimirate prima nelle vostre mani: rimirate me per i forami di quelle beate piaghe perché, passando li vostri ochi per quelli forami, non potrà la giustizia vostra cader sopra me, perché quelle feritte furno fate da la pietà e misericordia che avesti del genere umano».

«O altezza del mio Dio, dimando a la maestà vostra che date a me un cor novo, un amor novo, acciò languisca giorno e notte amando voi di amor vero, forte, spropriato, disinteressato, morto a tutte le cose create, amandovi e scordato del mio interesse, cercando il solo interesse della maestà vostra, nascondendomi entro la ferita del vostro santissimo costatto, acciò io contempli voi, o Dio de l’anima mia, e che da ora in poi io piega tutto al servizio vostro, consumando per vostro amore il corpo e l’anima mia, spargendo sopra di me un raggio del vostro Spirito Santo acciò la luce vostra schiari la cecità e le tenebre che non mi lasciano veder voi, Dio mio».

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Doriano Bendotti

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