Riportiamo di seguito la prima delle sette lectiones a cura di monsignor Enrico Dal Covolo, rettore della Pontificia Università Lateranense, a servizio delle parrocchie romane.
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Lasciandomi guidare dai nostri Padri nella fede, ho riletto la parola di Gesù: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” (Luca 11,9).
Ho riletto in particolare il commento di Guigo II, priore della Grande Certosa, colui che nell’età di Bernardo ha codificato l’esperienza della lectio divina e l’ha “fissata” nelle sue tappe fondamentali: la lettura, la meditazione, la preghiera e la contemplazione.
Ebbene, nella celebre Scala dei monaci o Trattato sul modo di pregare, Guigo applica proprio all’esercizio della lectio divina la parola di Luca.
“Dobbiamo fare ciò che ci è richiesto”, scrive il santo abate, cioè “leggere e meditare sulla parola del Signore, pregarlo perché venga in aiuto della nostra debolezza e veda la nostra imperfezione. Allora potrai raccoglierti e vedere quanto è buono il Signore!”.
Potremmo parafrasare così questo testo, con l’aiuto di san Giovanni della Croce: “Cercate nella lettura, troverete con la meditazione; bussate nella preghiera, entrerete nella contemplazione”.
Ma che cos’è questa contemplazione, concordemente avvertita da Guigo II e da san Giovanni della Croce come il punto di approdo del chiedere, del cercare e del bussare?
La vera contemplazione, a cui la lectio divina conduce, è il “confronto vitale” con Dio-Amore, un confronto che deve giungere a trasformare in amore tutta la nostra vita.
Allora la vita trasformata ci farà tornare alla Parola, e “ci accorgeremo che c’erano ancora tanti panorami da scoprire, che avevamo appena incominciato a sfiorare con i nostri occhi” (J.H. Newman).
E la lectio ricomincia, in modo sempre più ricco ed efficace. Scrive Carlos Mesters: “Le Parole di Dio sono come chicco di frumento: rivelano il senso che hanno per noi solo se le facciamo scendere nel terreno della nostra vita”. La vita è il “banco di prova” della lectio: se la vita ne esce trasformata, allora la lectio è buona.
Purtroppo succede molte volte che la nostra lectio si arresta alle prime fasi, finendo per rimanere teorica, disincarnata, scarsamente comunicabile. Vale allora ciò che lamentava un antico apoftegma dei Padri del deserto: “I profeti hanno scritto libri, poi vennero i nostri Padri che li misero in pratica. Quelli che vennero dopo li imparavano a memoria; poi venne la generazione presente, che li scrisse e li collocò inutili sugli scaffali”.
E concludo con un altro apoftegma, che invita a riflettere sulla circolarità che deve innestarsi tra la Parola e la vita. “Un monaco di Sceti era copista. Venne da lui un fratello a supplicarlo che gli ricopiasse il libro sacro. L’anziano, che aveva lo spirito occupato nella contemplazione, scrisse omettendo delle frasi e senza punteggiatura. Il fratello si accorse che mancavano delle parole, e tornato dal vecchio gli disse: ‘Padre, mancano delle frasi’. E quello: ‘Va’, pratica prima quello che è scritto, poi vieni che ti scrivo anche il resto!’…”.
Sono uomo “della Parola”? ho quotidianamente tra mano la Scrittura? La medito, come Maria, nel mio cuore? Mi preparo, per saperla annunciare in modo incisivo ed efficace? La mia vita predica la Parola? Sono capace di rinnovare la certezza di fede che quando annuncio la Parola è lo Spirito che parla in me, è lui che mi accompagna e che mi guida?