“Siamo di fronte oggi a tanti problemi comuni nella nostra vita ecclesiale, eppure nei nostri dialoghi ci accontentiamo troppo ‘dell’esterno delle cose’, di essere ‘amabile e cordiali l’un l’altro in parole e opere’. Ma il dialogo che inizia alla radice delle cose, con le sfide reali e le ferite della nostra vita ecclesiale, è quello in cui le nostre relazioni crescono e si approfondiscono”.
Questo, in sintesi, il punto di vista del cardinale Kurt Koch sul dialogo ecumenico, espresso lunedì scorso in un messaggio letto in apertura della “Receptive Ecumenism Conference”, ripreso dalla Radio Vaticana. L’evento è in corso, fino al 12 giugno, alla Fairfield University del Connecticut (Stati Uniti).
Secondo il presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, quello ecumenico è “un vero dialogo d’amore”; pertanto esso non può accontentarsi di una cortesia di facciata, ma necessita di gesti concreti.
Come quelli messi in atto da Papa Francesco durante il suo recente pellegrinaggio in Terra Santa, ad esempio. Il cardinale Koch – al fianco del Pontefice durante i tre giorni di viaggio – si è soffermato in particolare sul significativo abbraccio del Papa al Patriarca ortodosso Bartolomeo I, a cinquant’anni di distanza dall’altro storico abbraccio tra Paolo VI e il Patriarca Athenagora.
Un gesto comune l’abbraccio, che tuttavia dimostra come mezzo secolo abbia portato “molto frutto” a un dialogo basato sulla “verità” e sull’“amore”, ha osservato il porporato. Ha poi ricordato il cardinale John Henry Newman, che in uno dei sermoni sulla “simpatia”, ribadì la convinzione che i “cristiani fossero molto più simili l’un l’altro, anche nelle loro debolezze, di quello che spesso si era immaginato”.
Secondo il Beato, vi era una tendenza tra cristiani di diversa confessione a “non sondare completamente le ferite” della loro natura, preferendo piuttosto mostrarsi “amabili e cordiali a vicenda in parole e le opere”. “Le viscere del nostro affetto – affermava Newman – sono ristrette”, quasi come se si avesse timore di un rapporto che “inizi alla radice”. Il problema è che, così facendo, si finisce per svuotare la nostra religione e vederla solo “come un sistema sociale”.
La constatazione del cardinale Newman, secondo Koch, è oggi attuale e applicabile non solo ai singoli cristiani ma anche al loro essere comunità: “Lo ‘standard della nostra santità’ è diminuito”, ha detto, e “la ‘nostra visione della verità’ si è inibita”. E’ necessario, allora, un efficace “dialogo di verità” come quello proposto dal “Receptive Ecumenism”, nel quale – ha osservato il cardinale Koch – “l’onesta ammissione delle debolezze” si può trasformare in “un vincolo di unione”.