«Più che un contratto, il matrimonio è un’alta istituzione sociale, che cade sotto le prescrizioni dello Stato».
Ne è passato di tempo da quando, nel 1865, il ministro di Grazia e Giustizia dell’epoca, Giuseppe Pisanelli, nel presentare il nuovo codice civile, illustrava l’istituto del matrimonio civile, obbligatorio per tutti coloro che intendessero sposarsi. Una soluzione adottata da legislatori di matrice liberale e laicista, ispirata da ragioni slegate dalla natura sacramentale del vincolo matrimoniale e riconducibili invece rigorosamente ad un’etica laica del matrimonio, unione stabile e solidale tra un uomo e una donna prodotta dalla loro volontà di dar vita a un rapporto giuridico trascendente le loro persone e da esse indisponibile.
Dove non si è spinto il legislatore anticlericale è riuscita l’Italia repubblicana, che in questi giorni si rallegra d’aver ridotto a 12 mesi il periodo di separazione per poter presentare istanza di divorzio, (ridotto ulteriormente a 6 mesi in caso di separazione consensuale in assenza di figli minori). Il tutto mentre s’affaccia l’ipotesi di sottrarre ai giudici i procedimenti di separazione e divorzio di natura consensuale per affidarli agli avvocati delle parti.
Nessuno mette in dubbio la necessità di riformare la pessima legge sulla separazione e quella ancor più confusa sul divorzio, ma al di là delle buone intenzioni l’effetto è di un affievolimento delle relazioni di solidarietà, di un illanguidimento delle reti sociali e, soprattutto, di un indebolimento dell’individuo, sempre più solo di fronte ad un matrimonio ridotto a mero rapporto contrattuale, per giunta tra i meno tutelati anche sotto il profilo civilistico, dal momento che fattori come la coabitazione, l’assistenza morale e materiale, la collaborazione nell’interesse della famiglia risultano impoveriti di ogni efficace garanzia.
Di questo il legislatore non ha tenuto conto. Quasi che quei due anni in più o in meno, fossero la terapia decisiva per poter risollevare una famiglia che non riesce più a fare figli e quindi condanna se stessa e l’intera società a una sclerosi progressiva, che rende più incerto e oscuro il futuro di tutti, senza neppure chiedersi come mai non solo un numero crescente di matrimoni si spezzino prima del tempo, né pensare ai motivi per cui siano sempre meno i giovani che decidono di affrontare il futuro con un progetto di vita forte, coerente, coraggioso.
Questioni che pongono una sfida alla società di domani, chiamando in particolare la Chiesa e l’intera comunità ecclesiale a testimoniare, prima ancora della sacramentalità, la fisionomia dell’istituto sul piano naturale, nella consapevolezza che finché qualcuno non troverà un’altra struttura antropologica su cui poggiare l’architrave del bene comune, dimostrandone il buon funzionamento e la compatibilità con la biologia ed il sentire profondo dell’uomo, la famiglia e tutto quanto ad essa collegato dovrà continuare ad essere anche il progetto insostituibile di ogni azione politica ed «il nucleo naturale e fondamentale della società», che «ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato», come afferma la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Almeno sulla carta.