Non si può comprendere la portata simbolica dei gesti che hanno costellato la visita di papa Francesco in Terra Santa se non si risale alla radice etimologica della parola “simbolo”. In greco antico, l’unione di σύμ- (sym, “insieme”) e βολή (bolé, “getto”) assume il significato di “mettere insieme” due parti distinte. Obiettivo che il Vescovo di Roma ha perseguito concretamente: sui passi del suo predecessore Paolo VI ha incontrato il Patriarca ecumenico ortodosso di Costantinopoli, Bartolomeo, e, facendo valere la sua vocazione al dialogo, ha proposto ai presidenti palestinese e israeliano un incontro di preghiera “a casa sua”, in Vaticano, per invocare la pace. Alla vigilia di questo storico incontro, abbiamo intervistato il generale Giovanni Marizza, già Vice Comandante della Forza Multinazionale in Iraq e docente di Geopolitica e Gestione delle crisi, per conoscere le sue impressioni sulla diplomazia di papa Francesco.
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Gen. Marizza, che valore ha assunto da un punto di vista geopolitico la visita del Papa in Terra Santa?
Marizza: A mio parere il significato è quello di ribadire a chiare lettere la posizione della Santa Sede, ovvero il diritto di Israele di esistere e di godere di pace e sicurezza all’interno di confini internazionalmente riconosciuti, il diritto del popolo palestinese di avere una patria sovrana e indipendente, il diritto da parte degli uni e degli altri di spostarsi liberamente, il diritto di vivere in dignità e infine, ma non certo in ordine di importanza, il carattere sacro e universale della città di Gerusalemme e della sua eredità culturale e religiosa come luogo di pellegrinaggio di tutti i fedeli delle tre grandi religioni monoteiste. In sostanza una posizione non dissimile da quanto l’Onu previde già nel lontano 1947.
Israele intrattiene buone relazioni diplomatiche con il Vaticano da almeno vent’anni, dall’apertura della propria ambasciata presso la Santa Sede. In passato, tuttavia, non sono mancate incomprensioni e la posizione vaticana rispetto al sionismo non è sempre stata favorevole. Nel 1904 Pio X rifiutò decisamente la richiesta di sostegno da parte di Theodor Herzl rispetto alla nascita di una patria ebraica in Palestina. Papa Francesco è stato il primo Papa ad omaggiare la tomba del patriota israeliano: segna un nuovo approccio della Santa Sede rispetto al sionismo?
Marizza: Sì, l’approccio della Santa Sede è nuovo ma non rivoluzionario. Si tratta di una lenta ma significativa evoluzione nei rapporti reciproci iniziata da Giovanni Paolo II nel 1999 quando definì gli ebrei “i nostri fratelli maggiori”, portatori di una fede non estrinseca ma intrinseca alla nostra. Oggi papa Francesco procede su quella strada, con nuove aperture che possano superare le rigide posizioni e le ottuse incomprensioni del passato.
Come valuta, invece, l’approccio del Papa rispetto alla causa palestinese? All’Onu la Santa Sede aveva votato per l’elezione della Palestina a Stato osservatore, ma è la prima volta che un Papa parla espressamente di “due popoli, due Stati”.
Marizza: La formula “due popoli, due stati” è la più politicamente corretta e in linea di principio piace a tutti ma a nessuno può sfuggire la sua irrealizzabilità. I palestinesi stessi sono i primi a non crederci, ben consapevoli del fatto che un eventuale loro stato durerebbe poche ore, ossia fino all’arrivo sul suolo israeliano del primo razzo Qassam sparato dalla striscia di Gaza.
Solo poche ore?
Marizza: Ritengo di sì. Oggi le azioni ostili palestinesi contro Israele sono riconducibili alla responsabilità individuale di un singolo terrorista/patriota (a seconda dei punti di vista) o di una singola cellula e la risposta militare dello Stato ebraico non può che essere locale, selettiva e mirata. Ma dopo l’istituzione di un’entità statale, la responsabilità degli atti ostili ricadrà su quest’ultima, che risulterebbe estremamente vulnerabile e verrebbe neutralizzata di conseguenza nel suo complesso.
Alcuni settori dell’ebraismo in Israele non avrebbero gradito la scelta del Papa di incontrare prima le Autorità palestinesi piuttosto che quelle israeliane. D’altro canto, tra i palestinesi ha fatto discutere la scelta del Papa di omaggiare la tomba di Theodor Herzl. Quanto le ali intransigenti incidono sui negoziati israelo-palestinesi?
Marizza: La successione degli incontri viene sempre meticolosamente e per tempo concordata fra tutti gli aventi causa, quindi possiamo stare certi che era stata approvata da tutti, israeliani e palestinesi. Purtroppo le ali estremiste sono sempre state influenti ed hanno sempre avuto buon gioco, in quanto sanno perfettamente che un atto cruento alla vigilia dei negoziati ha buone probabilità di farli interrompere. E non sempre i negoziatori delle due parti hanno avuto la saggezza di Shimon Peres, che ha sempre sostenuto il principio “negoziare come se il terrorismo non ci fosse, combattere il terrorismo come se il negoziato non ci fosse”.
Una costante nei discorsi del Papa alle Autorità politiche incontrate durante il pellegrinaggio, è stato il riferimento alle comunità cristiane quali modelli di integrazione sociale e politica. Negli ultimi decenni si è registrata però un’emorragia di cristiani dal Medio Oriente. Qual è l’atteggiamento della Santa Sede rispetto a questa realtà?
Marizza: L’approccio alla soluzione di questo problema può essere duplice: o pretendere il principio di reciprocità (tratteremo bene le nostre minoranze musulmane solo se voi tratterete altrettanto bene le vostre minoranze cristiane) oppure puntare sulla valorizzazione delle origini comuni delle tre religioni monoteiste che discendono tutte da un padre unico, Abramo. La Chiesa di Bergoglio ha scelto questo secondo approccio, più impegnativo e complicato ma foriero, a lungo termine, di più concreti risultati.
Ritiene che l’incontro con il Patriarca ortodosso Bartolomeo possa ridisegnare i confini del dialogo con l’Oriente cristiano dopo che, nei mesi scorsi, si era registrato un avvicinamento tra la Santa Sede e il Patriarcato di Mosca? Che valore assumono in termini ecumenici le “aperture” sulla data condivisa per la Pasqua?
Marizza: Dopo l’incontro col Patriarca Bartolomeo le prospettive di riavvicinamento fra le due Chiese si fanno molto più concrete. Bene ha fatto il Papa ad impegnarsi in prima persona anziché affidare lo studio del problema a gruppi di lavoro e a commissioni tecniche, perché le difficoltà da superare sono sempre di entità inversamente proporzionale al livello degli incontri (“volete che il problema resti tale e quale? Istituite un gruppo di lavoro!” si sussurra nei palazzi delle pubbliche amministrazioni di mezzo mondo). Se si individuasse una data condivisa per la Pasqua, questo potrebbe fungere da straordinario catalizzatore per il superamento di altri numerosi ostacoli, realizzando così un circuito virtuoso capace di portare il processo di avvicinamento a risultati eccezionalmente positivi.
Crede si possa giungere a una pace in Terra Santa? In questo senso, come valuta l’incontro di preghiera di domani tra papa Francesco, Abu Mazen e Shimon Peres?
Marizza: L’iniziativa dell’incontro di preghiera dell’8 giugno è più che lodevole, ma una vera e solida pace in Terra Santa non sarà mai possibile. Paradossalmente, la responsabilità di questo fallimento annunciato è in buona parte attribuibile all’Onu. È stata proprio l’assemblea generale delle Nazioni Unite, nel 1949, a stabilire che i profughi palestinesi debbano essere gli unici al mondo a potersi fregiare del titolo di “profugo” in maniera ereditaria. E così, mentre con tale provvedimento (peraltro discriminatorio nei confronti di tutti gli altri profughi) si voleva dare importanza e visibilità alla causa palestinese, in realtà l’Onu
con la sua miopia ideologica ha inferto un colpo mortale alle aspirazioni di coloro che abbandonarono il suolo israeliano nel 1948. Costoro, che inizialmente erano mezzo milione, in base a quella bizzarra decisione “onusiana” sono già diventati cinque milioni. È ovvio come per Israele sia del tutto improponibile il “ritorno” di un simile numero di persone, che nel 2030 potrebbero essere dieci milioni.