Come era stato ampiamente previsto dagli osservatori internazionali, le elezioni in Siria non hanno riservato alcuna sorpresa. Le consultazioni, che hanno riconfermato in modo plebiscitario Bashar al Assad alla guida del Paese, sono state classificate da parte occidentale e dall’opposizione ribelle come “elezioni farsa”. Di certo, considerando la situazione di grave crisi in cui versa il Paese, non ci si poteva aspettare che il voto osservasse i canoni di trasparenza tipici di qualsiasi democrazia occidentale.
Al contrario, era logicamente prevedibile che il voto avrebbe rispecchiato i nuovi equilibri definiti dalla tragica guerra civile che da ormai tre anni insanguina il Paese. Tali consultazioni, infatti, sono state per Assad una prova di forza con cui è riuscito nell’intento di dimostrare al mondo intero e ai suoi sfidanti l’efficacia della suo potere all’interno del Paese, ed in particolare in quei territori che giacciono sotto il suo controllo; sia per il consenso ottenuto che, soprattutto, per l’assenza di gravi disordini che, al contrario, erano stati preventivati.
Assad, che fino a qualche tempo addietro era dato per spacciato e prossimo alla capitolazione, nel volgere di poco tempo è riuscito militarmente a ribaltare sul campo la situazione, recuperando gran parte dei territori perduti nonché le roccaforti strategiche cadute in mano dei ribelli.
La validità di una tale controffensiva è stata certamente favorita dal gioco di alleanze e contrapposizioni che, tanto a livello politico quanto a livello militare, attraverso il foraggiamento delle vari fazioni in campo, ha visto grandi potenze quali Stati Uniti, Russia, Cina e Unione Europea unitamente a Stati come l’Iran, Turchia, Arabia Saudita e agli altri paesi del golfo, contrapporsi sulla scena del “grande gioco siriano”.
Infatti, se le preghiere di Papa Francesco e i veti di Russia e Cina hanno scoraggiato nel settembre scorso l’intervento diretto degli Stati Uniti e della Francia, sul campo gli Hezbollah libanesi, abilissimi a fronteggiare militarmente sia i gruppi qaedisti ceceni che le altre forze presenti sul terreno, hanno permesso all’esercito siriano di effettuare la rimonta.
Vi è però da sottolineare che il consenso riscosso dal riconfermato Presidente non fa certo sperare in una repentina normalizzazione della situazione interna, dal momento che ancora oggi intere aree del Paese – quali quelle al confine con l’Iraq e con la Turchia – si trovano sotto lo stretto controllo dei gruppi qaedisti.
Al contempo, il risultato emerso dalle urne lancia dei messaggi di forza chiari ed inequivocabili che costringeranno gli strateghi occidentali ad accantonare definitivamente le residue ambizioni di un intervento militare per il rovesciamento del regime e a percorrere una mediazione di tipo politico che non sarà semplice da definire visto il moltiplicarsi e il dipanarsi di gruppi e fazioni di matrice terrorista presenti in Siria.
Tuttavia, stando alla situazione attuale, un’effettiva pacificazione della Siria può giungere solo nel medio lungo periodo. Com’è ovvio, essa dipenderà anche dai nuovi equilibri che andranno a definirsi nella regione mediorientale tenendo conto, principalmente, delle linee che assumeranno i due grandi attori regionali, Iran e Arabia Saudita.
Secondo alcune indiscrezioni emerse nei giorni precedenti alle elezioni parrebbe che questi due poli, che rispettivamente rappresentano un punto di riferimento per il mondo sciita e quello sunnita, abbiano iniziato a dialogare al fine di definire una road map che, dallo Yemen all’Iraq passando per il Libano e per giungere alla Siria, possa sedare le tensioni e ripristinare la stabilità regionale.