Domenica scorsa si è celebrata la Giornata delle Comunicazioni Sociali e – come si legge nel dizionario di pedagogia – il termine “comunicazione” etimologicamente significa “porre in comune”. È infatti attraverso l’interazione con gli altri che l’uomo realizza la propria identità ed attiva reali incontri con gli altri. “La cultura dell’incontro” di cui parla spesso Papa Francesco si apprende facendola.
Vi è un’interazione tra comunicazione e comportamento: ogni uomo, mentre da un lato sente l’esigenza di aprirsi agli altri, dall’altro esita a farsi conoscere per paura di essere frainteso.
Ad esempio, la relazione tra docente e studente diventa espressione di un atto libero e determinato, una vera scelta di vita che rende la professione docente non un semplice mestiere. La relazione educativa accompagna il percorso di istruzione e formazione che inizia con la scuola dell’infanzia e primaria, e prosegue con la secondaria di primo e secondo grado.
L’istruzione, in quanto processo di comunicazione non casuale, promuove lo scambio di informazioni tra docente e studente rendendo ogni comunicazione educativa un processo finalizzato alla modifica dei comportamenti e quindi del modo di pensare, sentire e agire dello studente, che a scuola cresce nella comunità, diventa uomo, apre i suoi occhi al vero e scopre la dimensione dell’Assoluto e dei valori.
L’insegnante, è fonte e ricettore di informazioni, promotore di comunicazione che utilizza non solo il linguaggio verbale, ma una serie di atteggiamenti che vanno dalla mimica del volto alla gestualità. I ragazzi ci leggono, leggono i nostri gesti, i nostri messaggi non verbali, ci esaminano, ci giudicano: dunque verificare e controllare i propri comportamenti è uno dei compiti dell’educatore al quale si chiede massima attenzione percettiva e ampia disponibilità affettiva, nel dare vita al dialogo educativo.
A scuola nella prassi ordinaria prevale la monodirezionalità che va dal docente allo studente, da chi sa a chi deve imparare, da chi parla e fa lezione a chi ascolta e ripete. La monodirezionalità, come pure il monologo del docente che parla da solo o adottando la tecnica del “a domanda risponde”(1), esclude il dialogo (2).
Dialogare (lo diceva già Socrate) significa discorrere, confrontare opinioni, tendere ad una verità concettuale. Il dialogo educativo si contrappone al discorso persuasivo (Sofisti) e alla lezione magistrocentrica, sollecitando il coinvolgimento dello studente, favorendo la corresponsabilità della crescita e del processo di miglioramento. La scuola, se vuole essere scuola di umanità, non può essere altro che “scuola del dialogo”.
Si registra oggi una forma nuova di dialogo tra docente e studente, ad esempio, quando si attiva il “blog di classe”, spazio di incontro e scambio oltre che di crescita e relazione. È questa una nuova strada che raggiunge spazi e tempi non coperti dalla presenza scolastica.
Le criticità nel dialogo educativo appaiono evidenti: affrontando i temi connessi alla crescita degli studenti, utilizzando i diversi registri e livelli, si evidenzia la frattura generazionale in atto all’interno della trama intrigante tra affettività e sessualità, tra valori oggettivi e priorità personali. E diventa difficile trovare un linguaggio condiviso con gli adulti.
I ragazzi ci chiedono gli strumenti per orientarsi e questo vuol dire per noi imparare di nuovo l’uso di certe parole. Per esempio: che differenza c’è tra emozione, sentimento e passione? Nel dibattito trasversale su temi come gender, omofobia, xenofobia, intolleranza religiosa, come e quando intervenire? Come rispondere alle domande di senso e di finalità, se a scuola prevale la nozione, il contenuto e l’ansia per lo svolgimento del programma?
I giovani di oggi, aperti al mondo tramite il web, spesso vivono la solitudine. Sono connessi, ma isolati, non realizzano incontri che li aiutano a crescere e diventare più uomini. Hanno bisogno di carezze che possono arrivare anche via web quando a interloquire con loro c’è un educatore che li ascolta e li ama.
Esiste infatti una povertà altrettanto insidiosa e sottovalutata che è la povertà educativa, vale a dire la privazione per un bambino e un adolescente della possibilità di apprendere, di sperimentare le proprie capacità, di far fiorire liberamente i propri talenti e le proprie aspirazioni. È una deprivazione che spesso si salda con quella economica e che può compromettere pesantemente non solo il presente, ma anche il futuro di un bambino, che rischia di ritrovarsi, una volta adulto, ai margini della società e del mondo del lavoro.
I bisogni educativi di ogni bambino sono da considerarsi, a tutti gli effetti, come bisogni primari e la lotta alla povertà educativa deve divenire una priorità. Il primo fattore della ripresa e di un effettivo sviluppo è l’educazione. Senza adulti appassionatamente impegnati ad accompagnare le giovani generazioni nella ricerca della verità del reale difficilmente può esserci progresso sociale.
Normalmente guardiamo le nostre istituzioni scolastiche soffermandoci solo sul loro aspetto fisico esteriore: le strutture cadenti, i vetri rotti, le infiltrazioni di acqua. Cose importanti, certo, ma rischiamo di trascurare in questo modo il cuore della questione, oltre che il vero problema della scuola italiana: perché le nostre scuole perdono per strada un quarto dei loro alunni?
Molto dipende dalla capacità di comunicazione e di relazione tra docente e alunno. La disaffezione, come un tarlo, mina le fondamenta della scuola e spinge i docenti a vivere nell’attesa della pensione e gli alunni nell’attesa della fine dell’anno scolastico. Una scuola poco amata è una scuola poco vissuta: difficilmente si riesce ad amare una scuola nella quale non si sta bene.