“C’è una bella differenza tra accontentarsi e essere contenti: essere contenti è proprio il contrario di accontentarsi; essere contenti è godere tanto di ciò che si ha davanti da desiderare di goderne ancora, in modo più profondo… è un desiderio che si accresce”. Così Franco Nembrini, professore di italiano e preside del Centro scolastico bergamasco La Traccia, ragiona sui versi dell’ultimo canto della Divina Commedia, prima che Dante si incontri a tu per tu con Dio: “E io ch’al fine di tutt’i disii appropinquava, sì com’io dovea, l’ardor del desiderio in me finii”.Da anni Franco Nembrini è impegnato nel portare avanti centinaia di incontri pubblici, in Italia e all’estero, dal Brasile alla Russia, su argomenti che spaziano da Dante alle questioni educative. ZENIT lo ha intervistato.
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Dall’ultimo libro di conversazioni sul rischio educativo, che ha intitolato Di padre in figlio, alle letture della Divina Commedia tenutesi a Roma nella parrocchia di San Bernardo di Chiaravalle, qual è il ruolo di Dante nella sua strategia educativa?
Nembrini: Non ho grandi strategie educative, semplicemente ritengo che l’educazione, ora come tempo fa, possa avvenire solo se l’adulto ha il coraggio di fare ai ragazzi una proposta molto alta, e questo vale sia per i genitori con i propri figli sia per gli insegnanti. Dopodiché per me raccontare di Dante è importante, continua ad essere un grande maestro con cui interloquire, da cui imparare: dico semplicemente ai ragazzi ‘Dante ha una proposta da fare a me, io per primo la sto verificando, se volete la verifichiamo insieme; la sua proposta può essere anche per voi’. Questo avviene per Dante in modo clamoroso proprio per la bellezza della sua poesia e la completezza del discorso che fa, ma può ovviamente avvenire con qualsiasi autore e con qualsiasi disciplina e a maggior ragione, come nel caso dei genitori, anche non insegnando nessuna disciplina in particolare.
Dante è stato fondamentale anche nel decidere quella che sarebbe stata la sua vocazione nella scuola…
Nembrini: Certamente sì, il ruolo che ha avuto quell’episodio che spesso racconto, per cui in prima media scopro che Dante parla di me perché una sua terzina fotografa la situazione che sto vivendo in quel momento, è stata per me una scoperta importante. La scoperta che Dante parlava di me e lo scoprire che ero al centro dell’opera letteraria, perché il poeta e l’artista hanno proprio questa caratteristica: toccano corde della propria vita che sono le stesse corde per cui vibri tu, per cui quando leggi una poesia o un’opera d’arte non puoi non sentirti chiamato in causa. Per me questo ha voluto dire la scoperta dell’interesse per la letteratura, e quindi ha poi dato un contenuto a quella vocazione che ho maturato prestissimo, la vocazione all’insegnamento: all’esame di terza media giurai alla mia professoressa di italiano che sarei diventato un insegnante di italiano, ma per la bellezza e la passione che lei mi aveva comunicato in quei tre anni.
Recentemente il Papa incontrando le scuole ha detto agli insegnanti di imparare ad imparare perché i ragazzi si sentono attratti da un pensiero incompiuto; inoltre ha sottolineato per ben due volte la parola ‘apertura alla realtà’.
Nembrini: Quando ho sentito il Papa mi sono sentito a casa: il Papa ha utilizzato proprio l’espressione che era tanto cara a don Giussani, ‘introdursi alla realtà secondo tutte le sue dimensioni’. Lo ha detto più volte lanciando quello stupendo strale agli adulti, per cui non abbiamo diritto ad avere paura della realtà. Gli adulti fanno fatica a educare perché hanno paura della realtà. L’adulto coraggioso che sta dritto anche davanti alle avversità è testimone di una positività che è ciò di cui i ragazzi hanno bisogno. Inoltre io dico sempre ai miei insegnanti ‘un insegnante che non ha più nulla da imparare non ha più nulla da insegnare ed è bene che cambi mestiere’: mi sembra che il Papa sia andato proprio in questa direzione: un pensiero incompiuto è un pensiero capace di imparare cose nuove. E’ di questa scoperta che i ragazzi si innamorano.
Parlando della scuola con il rischio di un’educazione che possa corrompere se non è allineata alla realtà: come affronta i temi legati alle relazioni affettive?
Nembrini: Se si legge a dei ragazzi di quindici o diciotto anni la proposta che Dante fa dell’amore tra l’uomo e la donna raccontando di sé e di Beatrice e della strada da lui percorsa per comprendere l’affettività, l’amore e la vocazione… perché questi ragazzi si entusiasmano a questa proposta? Perché è fedele al dato di realtà, perché lì c’è qualcosa di vero, che i ragazzi sentono vero nonostante tutta la confusione imperante nei media, nei dibattiti televisivi e nelle pratiche quotidiane che si vedono proporre. Oggi come cinquecento anni fa una proposta così infiamma ancora il cuore di un quindicenne, il quale poi dovrà fare il suo percorso, la sua verifica; dovrà anche scontrarsi con certe nuove teorie e sensibilità, ma avrà tutti gli strumenti per farlo. In questo mi sembra che debba consistere l’educazione, non tanto convincere i ragazzi di qualche cosa, ma proporre una verifica così seria, così razionale e così stringente da permettere loro di fare il percorso di conoscenza della verità.
L’idea comune è che credere equivalga ad una privazione, ad una mortificazione dei sensi. Occorre privarsi di qualcosa per accedere alla felicità?
Nembrini: Mi sembra che già il Vangelo sia chiaro almeno in termini di promessa: il centuplo quaggiù. Coloro che si privano sono altri: il cristiano nel momento in cui attinge alle fonti della verità, e cioè ad una conoscenza più profonda, più sicura, più lieta del valore delle cose, guadagna tutto, perché sembra che la fede sia esattamente l’esperienza di una non-perdita, un’esperienza che tutto salva e fa guadagnare. San Paolo lo diceva con parole assolutamente radicali: “Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo e di Dio”. Nella fede tutto è nostro perché uno guadagna sé stesso: certo che se il problema è guadagnare, c’è un aspetto di sacrificio, ma ‘chi lascia suo padre e sua madre per seguire me avrà cento volte in padri, madri, fratelli, sorelle’: questa dinamica cristiana è una dinamica di una suprema convenienza nella vita, che ha come legge, come dinamismo il sacrificio, ma proprio per un guadagno. Su questo sono assolutamente lieto e sicuro, l’ho visto vivere e l’abbiamo visto vivere in duemila anni di cristianesimo da tanti. Io stesso nel mio piccolo dico ‘non rinuncerei mai alla fede perché nella fede ho guadagnato’.
I ragazzi spesso dicono ‘non mi va’, come se per il fatto che una cosa non va non sia giusto farla…
Nembrini: Se si dà corda quest’inclinazione, che pure è comprensibile, si ottengono degli ‘sdraiati’, cioè dei ragazzi che non si riescono più a spostare dal divano, perché di per sé, dal punto di vista naturale, non va nulla che richieda un minimo di sacrificio. La realtà invece è che, quando si chiede ai ragazzi una fatica, se la si motiva, sono loro che la richiedono, perché ne ricavano una soddisfazione altrimenti impossibile. Bisogna avere l’intelligenza di cogliere gli strumenti, le occasioni per proporre questa fatica ed aiutarli a vivere. Dopodiché, quando ne fanno esperienza anche solo una volta, il mi va o non mi va cade da solo.
E se gli insegnanti si lamentano del fatto che alcuni ragazzi non sono motivati o sono privi di gusto?
Nembrini: Non hanno il coraggio di farsi la domanda giusta: i ragazzi non hanno interessi perché non li interessiamo, sono distratti perché non li attraiamo. Il problema è tutto nella testimonianza e nella proposta dell’adulto.