Una riflessione su giustizia, carità e misericordia (Quarta parte)

Relazione di Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, all’ultimo Convegno annuale della Fondazione Centesimus annus – Pro Pontifice

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Pubblichiamo oggi la quarta parte della relazione tenuta dal presidente emerito della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick, all’ultimo Convegno annualedella Fondazione Centesimus annus – Pro Pontifice, che si è svolto dal19 al 20 ottobre scorsi a Cuneo ed era dedicato al tema“La giustizia è la prima via della carità” (Caritas in Veritaten. 6). 

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L’atto della creazione è dunque il primo − nell’ordine temporale, ma anche in quello assiologico − atto di misericordia: si potrebbe dire, è ciò che fonda la misericordia futura tra tutti gli uomini. Anche a costo di annacquare la giustizia, mettendone in forse la sua perfezione, rischiando − e la “cancellazione” della scena delle precedenti venticinque creazioni ne è la conferma − un mondo claudicante.

La misericordia, nella sua prima epifania, è dunque un atto di ritrosia del perfetto rigore: un cedimento della giustizia, una rinuncia alla sua perfetta completezza per creare un mondo imperfetto e donarlo agli uomini. Da allora, da quest’atto fondativo, sarà sempre così: la misericordia sarà un atto di trasfigurazione della giustizia, un subentrare ad essa, una sua sublimazione.

Sotto questo aspetto, la misericordia è la forza reale della giustizia. La misericordia intesa come clemenza, come esercizio clemente della giustizia è sintomo della vera forza di quest’ultima: un po’ come il pianto è la vera forza del bambino inerme.

D’altra parte, questa non è solo un’idea biblica: in Aristotele la misericordia clemente (l’epikeia) è un correttivo della legge mai perfetta. Ma è nel Cristianesimo che la misericordia realizza la sua piena essenza, divenendo gesto non calcolato, e dunque gratuito, imprevisto, che evade dal cerchio della logica: «perdono unito ad umiltà» nella coscienza della propria ed altrui debolezza morale (Armando Rigobello).

E’ la consapevolezza che noi, «esseri zoppicanti», limitati, siamo illimitatamente responsabili per il nostro prossimo, oltre ogni giustizia, accollandoci, quando le circostanze lo impongono, «anche quella parte di ingiustizia necessaria ed inevitabile all’espletamento della giustizia». La misericordia può sorgere solo dopo la morte e la risurrezione di Cristo, poiché è l’evento di salvezza − l’«esultanza infinitamente umile di sapersi creatura amata-salvata» (Lombardi Vallauri) − che genera, «come necessario modo d’essere del cuore stesso», la misericordia, l’essere tra gli uomini in una unità di aiuto, felicitazione, edificazione reciproca.

Con la misericordia scegliamo per il prossimo «le allungatoie, ignorando le scorciatoie» (Baharier), proprio in quanto ripetiamo, ad imitazione di Dio che ci ha amati creature e peccatori, la gratuità di questo amore, non motivato da alcun merito, non filtrato da alcun giudizio. Misericordia è miserere cordis: cuore compassionevole al di là del merito, proprio perché viene solo dopo che Dio lo ha già amato; è coscienza della propria finitudine, precarietà, caducità, insignificanza, provvisorietà; dunque, condizione ideale ed unica per poter amare, senza giudicare. Non a caso i misericordiosi veri sono proprio quanti, solitamente, debordano dalla legge: «Beati i pubblicani e le prostitute, perché vi precederanno nel regno dei cieli».

Al contrario, in quanti rischiano di far prevalere la dimensione intellettuale si incrementano la differenziazione, il narcisismo e dunque l’indifferenza per la sorte del prossimo; non si riesce a compiere il passo verso la misericordia e la si corrompe con la sua contraffazione, la filantropia: vale a dire, “amo (recte: dico di amare) tutta l’umanità perché, in realtà, sono incapace di amare il singolo uomo, di riconoscere ed amare il mio prossimo”. Sappiamo bene, infatti, che il prossimo vero, quello realmente vicino, è più difficile da amare di quanto non lo sia quello lontano, spesso commuovente, ma invisibile: il prossimo ha esigenze più pressanti, ci chiede di metterci in gioco, di mortificare antipatie e inibizioni, timori e timidezze, orgogli e pregiudizi; ciò che evitiamo di dover affrontare con un “prossimo” indistinto e lontano. Visitare uno sconosciuto ammalato terminale di cancro in una corsia di ospedale della mia città è assai più difficile che spedire un importo su un conto corrente per un’adozione a distanza: anche se, paradossalmente, quest’ultimo gesto ci sembra più giusto e più significativo del primo, e così è percepito oggi nel sentire sociale.

La misericordia, a differenza del comportamento giusto, è invece autenticamente effusiva, unitiva, oblativa: perché essa è amore intuitivo dell’individuale, «amore di generosità, amore di sacrificio, amore di appartenenza»; è dono di sé (dare la vita), dono di ciò che si ha, dono che non pretende ricambio, sopravanzando ogni giustizia commutativa, superando ogni giustizia distributiva (Lombardi Vallauri).

La misericordia è capace di autentico riconoscimento dell’altro; di pronunciare il Tu che, una volta riconosciuto e pronunciato, «riempie la volta del cielo» (Martin Buber), tanto è la sua pienezza per l’Io. L’apertura all’incontro con il Tu, proprio della misericordia, abolisce la distanza, propria della giustizia. All’ Io-Tu del rapporto giuridico, la misericordia sostituisce il Noi, categoria dell’unione, dell’incontro, che abolisce ogni dicotomia: «nel Noi io non so se do o ricevo e il mio darmi è un ricevere il mio più vero io; veramente il dare non è più dare e la generosità non è più generosità» (Lombardi Vallauri). In breve: la misericordia abolisce la bilateralità propria del rapporto giuridico, poiché la misericordia non può essere ricambiata. Non va ricambiata.

(La terza parte è stata pubblicata sabato 19 gennaio. La quinta ed ultima parte uscirà domani, lunedì 21 gennaio)

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ZENIT Staff

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