Perché il Giappone ha più debiti e meno austerità?

Il Giappone con un rapporto debito Pil al 236% non è oggetto ad attacchi dalla speculazione finanziaria, e non è costretto ad attuare politiche di austerità come accade in Italia. Perché?

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Negli incontri di formazione, spesso mi sento ripetere due domande: perché il Giappone con un rapporto debito Pil al 236% non è oggetto ad attacchi dalla speculazione finanziaria? E perché non è costretto ad attuare politiche di austerità come accade in Italia e negli altri paesi? Il Giappone ha infatti un debito/Pil al 236% e un deficit/Pil al 10%.

Nonostante questi numeri che sono drammatici se analizzati dalla Troika (Fondo Monetario Internazionale (Fmi), Banca Centrale Europea (Bce), Unione europea (Ue), il premier giapponese Shinzo Abe ha annunciato alcuni giorni fa un ulteriore aumento della spesa pubblica con un primo intervento da 85 miliardi di euro.

Insomma, perché questa divergenza tra l’ortodossia liberista monetarista europea fondata sull’austerity e politiche ultra keynesiane in Giappone?

L’enorme debito non impedisce al Giappone di essere la terza economia del pianeta con un tasso di disoccupazione del 4,5% contro l’11% europeo; inoltre il Paese del Sol Levante può permettersi di finanziare il debito pubblico americano (facendo , ovvero pagando interessi inferiori all’1% su titoli a 10 anni ai detentori dei titoli nipponici e ricevendo quasi il 2% dal Tesoro Usa) e quello europeo (il Giappone si è detto pronto ad acquistare titoli emessi dal Fondo salva-Stati Esm).

La risposta va ricercata nel fatto che il Giappone rispetto ai PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) o a un qualunque Paese dell’Eurozona, ha almeno due vantaggi strutturali.

Rispetto all’Europa il Giappone con la sua Banca Centrale (Bank of Japan) può stampare tutta la moneta che vuole; difatti la missione della Bank of Japan è quella di difendere l’economia reale; il secondo vantaggio lo troviamo nel fatto che gran parte del debito pubblico è in mano dei cittadini e degli investitori interni.

I Paesi dove le Banche Centrali hanno la possibilità di stampare moneta (oltre alla Bank of Japan abbiamo la Federal Reserve statunitense, la Bank of England e la Banca Centrale Svizzera), possono prestare denaro all’economia reale e sono in condizione migliore rispetto ai PIIGS che con la Bce non godono di questa protezione,

Seppure la stessa Bce abbia attuato nel corso del 2012 misure piccole misure di intervento come lo scudo anti-spread (che agisce sul mercato secondario) o l’attivazione del fondo Esm (che può tecnicamente acquistare titoli di Stato sul mercato primario qualora un Paese chieda esplicitamente aiuto.

La Germania non è favorevole a politiche dove la Banca centrale stampa moneta per sostenere la crescita (come peraltro la Federal Reserve ha già fatto tre volte dopo il collasso di Lehman Brothers), perché questo farebbe crescere l’inflazione.

Questa affermazione non è frutto di un’equazione matematica, ma dell’esperienza storica del biennio 1921 e 1923, dove in Germania si scatenò “l’iperinflazione di Weimar” che favorì la presa del potere a Adolf Hitler.

La Germania ha timore di vedere ripetersi un fenomeno disastroso, anche se i cicli storici non si ripetono mai in eguale modo, soprattutto quando parliamo di un fenomeno avvenuto novanta anni fa.

Ad esempio negli Stati Uniti dal 2008, dopo tre piani di allentamento monetario (l’ultimo dei quali prevede che la Fed stampi 40 miliardi di dollari al mese per un periodo indefinito), l’inflazione non è andata oltre il 3,8% (favorendo peraltro una ristrutturazione gratuita del mastodontico debito pubblico americano, oltre 16mila miliardi di dollari) dato che i tassi nominali che il governo Usa paga sui titoli a 10 anni sono inferiori al 2%.

Che i timori tedeschi siano infondati lo dimostra anche quando accaduto in Giappone, dove da tempo la Banca centrale persegue politiche di allentamento monetario.

Nel Paese del Sol Levante dal 1997 al 2011 i prezzi sono scesi dello 0,08% secondo i dati Eurostat.

Il fatto che in Giappone il debito pubblico è detenuto quasi totalmente al suo interno offre un vantaggio, ma anche alcuni punti negativi.

Il vantaggio: il debito essendo detenuto intra Giappone è tecnicamente inattaccabile dalla speculazione.

L’aspetto negativo: l’enorme “debito pubblico interno” del Giappone è poco liquido, in quanto poco aperto agli investitori stranieri.

Qui subentra il secondo elemento negativo: il crollo demografico.

La maggior parte della ricchezza dei risparmiatori giapponesi investita nel debito interno è in mano alla generazione dei baby boomers; cioè di coloro che sono nati tra gli anni ’40 e ’60, molti dei quali stanno andando in pensione o andranno in pensione nei prossimi anni.

Come una letteratura economica scientifica dimostra, con l’età della pensione le persone smettono di risparmiare e iniziano a spendere.

Quando la forbice si aprirà, il debito giapponese sarà costretto ad aprirsi agli investitori internazionali che, a fronte di un debito pubblico pari al 236% del Pil e e a un deficit/Pil al 10%, potrebbero scatenarsi in un attacco speculativo, chiedendo un interesse maggiore rispetto allo 0,82% pagato attualmente. Mettendo a repentaglio la sostenibilità del debito.

E’ quindi chiaro che le decisioni di politica economica, quando non sono equilibrate ed orientate al bene comune, hanno sempre un costo nel medio e lungo periodo.

Questa riflessione mi porta a leggere la situazione attuale in Italia.

Lo spread tra BTP e Bund è letteralmente crollato dal massimo storico di 574 punti del 9 novembre 2011, ad un minimo a 236 di qualche giorno fa.

A causa dell’incertezza dl voto oggi lo spread sta a 263.

Secondo le ultime stime degli addetti ai lavori, dallo scorso novembre il flusso degli investimenti esteri sul debito pubblico – che durante la crisi, stando ai dati Bankitalia, è calato dal picco del giugno 2011 a quota 813 miliardi fino ai 671 di ottobre 2012 – è stato positivo.

Un dato che si sposa con le dichiarazioni di rinnovata fiducia degli investitori stranieri sull’Eurozona e sul debito italiano (fra cui quella di Pimco, il maggior gestore al mondo di fondi obbligazionari, che a novembre ha annunciato di vendere titoli francesi e tedeschi rimpiazzandoli con quelli italiani e spagnoli).

I mercati provano ad anticipare la ripresa economica che potrebbe esserci a partire dal 2014 mentre nel frattempo i dati del 2012 sono negativi (l’Ocse ha pubblicato il Pil del terzo trimestre con Italia maglia nera d’Europa a -0,2%)

I fatti indicano (in attesa della conferma con nuovi dati ufficiali di Bankitalia), quindi, che lo spread si sta ridimensionando grazie alla ritrovata fiducia internazionale e a nuovi afflussi di investimenti esteri sul debito pubblico.

La storia recente ha però dimostrato che la dipendenza estera del proprio debito è certamente un bene (quando le cose vanno bene) ma non offre il paracadute (come quello di cui oggi beneficia il Giappone) quando le cose vanno male e i grandi investitori scappano.

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Carmine Tabarro

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