Pubblichiamo oggi la prima parte della relazione tenuta dal presidente emerito della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick, all’ultimo Convegno annuale della Fondazione Centesimus annus – Pro Pontifice, che si è svolto dal 19 al 20 ottobre scorsi a Cuneo ed era dedicato al tema “La giustizia è la prima via della carità” (Caritas in Veritate n. 6).
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1. Premessa
Una riflessioni sul rapporto tra giustizia e carità, sottolineato con fermezza dall’enciclica Caritas in Veritate, trova un duplice riferimento, particolarmente significativo ed attuale (nei tempi di crisi in cui viviamo) nell’apertura e nella conclusione dell’enciclica Centesimus Annus.
Quest’ultima propone una rilettura, attualizzata, nel contesto di fine millennio, della dottrina sociale della Chiesa, sviluppata nell’enciclica Rerum Novarum. Essa muove dall’affermazione – forte e decisa al pari di quella della Caritas in Veritate, su cui si articola il Convegno odierno (La giustizia è la prima via della carità) – che la pace si edifica sul fondamento della giustizia, nelle situazioni umane individuali e comunitarie, nazionali e internazionali, come per altro aspetto ci ricorda, a metà del percorso secolare fra quelle due encicliche, l’insegnamento altrettanto fondamentale dell’enciclica Pacem in Terris sulla sequenza tra verità, giustizia, amore e responsabilità, per costruire una pace che non sia soltanto assenza di guerra, ma bene universale comune.
La conclusione dell’enciclica Centesimus Annus è altrettanto forte e decisa, dopo l’analisi di come, in questa secolo, si siano evolute (e non siano state soddisfatte) la domanda di giustizia e quella, connessa, di riconoscimento della dignità umana: soprattutto oggi, in un contesto nel quale la globalizzazione, lo scontro fra i vari egoismi e la destinazione universale dei beni (penso all’acqua, probabile se non certa occasione/causa delle prossime guerre), la proiezioni dei diritti e dei doveri nel rapporto fra popoli e non solo fra individui, l’evoluzione tecnologica, propongono molteplici dubbi sul futuro della umanità e sullo sviluppo sostenibile, che è l’altro nome della pace.
La Centesimus Annus Conclude il suo insegnamento sottolineando come l’amore per l’uomo e, in primo luogo, per il povero, nel quale la Chiesa vede Cristo, si fa concreto nella promozione della giustizia. Questo non potrà mai essere pienamente realizzato, se gli uomini non riconosceranno nel bisognoso, che chiede un sostegno per la sua vita, non un importuno o un fardello, ma l’occasione di bene in sé, la possibilità di una ricchezza in più… Perché si attui la giustizia e abbiano successo i tentativi degli uomini per realizzarla, è necessario il dono della grazie che viene da Dio.
Traggo dunque dall’incipit e dalla conclusione della Centesimus Annus, come ripresa dalla Caritas in Veritate, la convinzione che la giustizia deve coniugarsi con la carità, per poter giungere alla misericordia, che è perfezionamento e al tempo stesso superamento della giustizia. E vorrei proporre all’attenzione una riflessione sul rapporto che vi è – vi deve essere – tra giustizia, carità e misericordia.
2. Giustizia
L’esperienza giuridica, quindi la giustizia, si colloca essenzialmente nell’ambito di un’esperienza intersoggettiva, di un’esperienza di rapporto. Come già affermava Aristotele, nel quinto libro dell’Etica Nicomachea, la virtù della giustizia è πρός έτερον, “ad alterum”, come dirà poi San Tommaso: “la giustizia ha a che fare con l’altro”, è uno dei modi dell’incontro con l’altro, «dell’“esse ad”, dell’essere-in-relazione, dell’essere-con (Mitsein)» (Luigi Lombardi Vallauri). La Giustizia, come virtù, è dunque un modo di relazione, implicando un rapporto con l’altro: una delle definizioni maggiormente scolpite di essa, quella appunto di San Tommaso, la vuole come «volontà perpetua e costante di rendere a ciascuno il suo diritto» (Perpetua et costans voluntas jus suum cuique tribuendi).
Il luogo della giustizia è, dunque, la vita collettiva, perché l’essere-altro, l’essere-separato, “dall’altra parte”, è ciò che distingue la giustizia dall’amore, dove invece è abolita la distanza e gli individui non si contrappongono l’uno all’altro, quali separate “altruità”, come degli estranei.
«Essere giusto vuol dire convalidare l’altro come tale, vuol dire insomma offrire il riconoscimento, là dove non è possibile l’amore. E la giustizia avverte, dal canto suo, che esiste un altro, il quale non è come me e tuttavia ha anche lui il diritto al suo» (Josef Pieper). Dunque, la giustizia è la virtù che ci porta a riconoscere a ciascuno ciò che gli spetta, ciò che è «suo»: ma cosa significa “rendere il suo a ciascuno”?
Si possono individuare due significati di “suo” (Joseph De Finance).
Il primo è quello tradizionale: un pronome possessivo, che designa una unità di possedente e di posseduto; quest’ultimo è riferito al primo come la parte al tutto, l’organo al vivente, lo strumento all’agente. In questo senso «ogni esistente “possiede” i suoi principi intrinseci:…essi sono i “suoi” perché maggiormente collegati al suo essere»; senza di essi quell’individuo non potrebbe essere quello che è, non potrebbe esistere. Sotto questo aspetto, la giustizia rappresenta, per ciascun individuo, «il suo dovuto», proprio per consentirgli di essere, unico ed irripetibile.
Ma c’è anche un senso diverso di “suo”, un senso riflessivo. In tale prospettiva, “suo”– quale riconoscimento basilare della giustizia – non è semplicemente ciò che è unito al soggetto mediante una relazione oggettiva di possesso: è piuttosto la coscienza e la consapevolezza di tale possesso; è un modo dell’ essere-sé, un’esperienza intrasoggettiva di ciò che si possiede o che si deve possedere. In questo senso, “rendere a ciascuno il suo” è anche rendere a ciascuno la coscienza di sé, dunque la libertà: «volere rendere a ciascuno ciò che è suo», in fondo, è innanzitutto «volere che ciascuno sia sé stesso», cioè che sia libero.
(La seconda parte verrà pubblicata domani, venerdì 18 gennaio)