Gli eroi sconosciuti dell'Olocausto

La storia dei “Giusti tra le Nazioni”, uomini e donne che ignorarono le leggi naziste, si opposero all’opinione pubblica e osarono fare ciò che era giusto

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In preparazione alla “Giornata della Memoria”, in programma il 27 gennaio prossimo, riprendiamo la prefazione al volume I giusti. Gli eroi sconosciuti dell’Olocausto, di Sir Martin Gilbert, edito da Città Nuova.

Sir Martin Gilbert è uno dei più grandi storici viventi  famoso come biografo ufficiale di Winston Churchill e come uno dei più noti studiosi dell’Olocausto, ha pubblicato 72 libri di cui molti tradotti anche in italiano.

Per i servizi resi alla Storia britannica e alle relazioni internazionali, nel 1995 è stato insignito dell’ordine dell’Impero Britannico dalla Regina Elisabetta II. Gilbert è anche fellow onorario del Merton College dell’Università di Oxford.

Rischiò di perdere la vita durante gli attentati del 7 luglio 2005 nella metropolitana di Londra.

***

Il 28 ottobre 1974, mentre camminavo sul Monte Sion, a Gerusalemme, vidi dinanzi a me la fine di una processione diretta a uno dei cimiteri cristiani della città. Sorpreso perché molti dei partecipanti sembravano ebrei, chiesi a uno di loro di chi fosse il funerale e mi fu detto che era di un cristiano tedesco, Oskar Schindler, che aveva aiutato a salvare le vite di più di 1.500 ebrei durante la seconda guerra mondiale.

Come la maggior parte delle 400 persone della processione, l’uomo al quale mi ero rivolto era un ebreo salvato da Schindler. Così anche il giudice Moshe Bejski, polacco di nascita, un sopravvissuto dell’Olocausto che pronunziò l’orazione funebre. Bejski era allora attivo nella ricerca dei non ebrei che avevano salvato vite ebraiche durante l’Olocausto, per permettere loro di ricevere un riconoscimento formale come Giusti tra le Nazioni. Questo riconoscimento veniva dato, e continua a essere dato, dallo Yad Vashem, il Museo e archivio dell’Olocausto a Gerusalemme, come previsto da un’apposita legge dello Stato di Israele.

Il concetto di «Giusto tra le Nazioni» – in ebraico hasidei umot haolam – è antico nella tradizione ebraica. In origine, quelle «nazioni» erano le tribù non in israelite dei tempi biblici. Durante la recita serale della Pasqua ebraica secondo una tradizione postbellica, gli ebrei ricordarono Shifra e Puah, le due levatrici egiziane «che sfidarono l’editto del Faraone che ordinava di annegare i bambini maschi di Israele nel Nilo», e la figlia del Faraone «che violò il decreto del padre di annegare i neonati, e salvò Mosè». Vedendo l’israelita appena nato per il quale la morte era l’unico decreto – il decreto di suo padre -, ella lo portò via dal fiume in una cesta e lo allevò come fosse suo figlio. Nella Bibbia non le è dato alcun nome. Le saghe ebraiche scelsero un nome per lei: Batya, la figlia di Dio.

Da quel giorno sul Monte Sion nel 1974, ho iniziato a raccogliere articoli di giornale sui riconoscimenti e le cerimonie di riconoscimento allo Yad Vashem, e a trascorrere tempo in quella parte dell’archivio lì dedicata ai Giusti. Parte del materiale di questo libro deriva dalle mie ricerche di quell’epoca.

Molti degli ebrei che sopravvissero al dominio e all’occupazione nazista dell’Europa tra il 1939 e il 1945 devono la loro sopravvivenza a non ebrei. La pena per aver aiutato un ebreo a nascondersi era spesso la morte, specialmente in Polonia e nell’Europa dell’est. Molte centinaia di non ebrei furono giustiziati per aver tentato di aiutare gli ebrei. Vicini di casa ostili potevano essere pericolosi come la Gestapo, perché spesso tradivano sia coloro che si erano nascosti sia quelli che si nascondevano.

All’inizio del 2002, 56 anni dopo la fine della guerra in Europa, più di 19.000 non ebrei erano stati onorati allo Yad Vashem. Mentre un secolo cedeva il passo ad un altro, più di 800 non ebrei venivano identificati e premiati ogni anno. Se una singola pagina stampata fosse dedicata a ciascuna persona già riconosciuta come Giusto, ci vorrebbero 50 libri della stessa dimensione di questo per raccontare tutte le loro storie.

Nel 1993 sono stato invitato a parlare, a Gerusalemme, a una riunione di diverse centinaia di ebrei che da bambini, durante la guerra, sono stati nascosti da non ebrei. Questi «bambini nascosti» (Hidden Children, il nome della loro associazione), si erano riuniti a New York due anni prima, e avevano sentito che era venuto il momento di cercare un pubblico riconoscimento per coloro che avevano salvato le loro vite, che avevano nascosto bambini ebrei, salvandoli dalla deportazione e dalla morte: cattolici – tra essi anche religiosi francescani, benedettini e gesuiti – ortodossi greci e russi, protestanti, battisti e luterani, come anche musulmani in Bosnia e Albania.

Tra i salvatori c’erano preti e suore, infermiere e bambinaie, insegnanti e studenti, vicini e amici, impiegati e colleghi dei loro genitori. Un singolo atto, persino una singola affermazione, poteva salvare una vita, come quando una contadina polacca, sentendo dire dagli abitanti del suo villaggio, a proposito di Renée Lindeberg, di quattro o cinque anni: «Buttatela nel pozzo», risponde: «Non è un cane dopo tutto…»; e Renée fu salvata.

Abraham Foxman, che è stato salvato dalla sua bambinaia a Vilnius, ha detto all’incontro dei «bambini nascosti» a Gerusalemme: «Per più di cinquant’anni dopo l’Olocausto i sopravvissuti hanno dato testimonianza del male, della brutalità e della bestialità. Tocca a noi oggi, alla nostra generazione, portare una testimonianza di bontà, giacché ognuno di noi è la prova vivente che persino all’inferno, in quell’inferno chiamato Olocausto, vi fu la bontà, la gentilezza, nonché l’amore e la compassione».

La storia dei non ebrei che salvarono vite ebraiche – i «Giusti» di questo studio – non è tra quelle che hanno avuto un’alta priorità nei primi decenni dopo la guerra. Comprensibilmente, gli scrittori ebrei vollero raccontare le storie della sofferenza, della distruzione e l’uccisione dei loro cari, come anche della resistenza e della rivolta ebraiche. Nel suo poderoso studio sul ghetto di Vilnius, pubblicato nel 1980, lo storico Yitzhak Arad, egli stesso sopravvissuto di quel ghetto e partigiano, scrisse solo pochissime frasi sui Giusti, affermando enfaticamente: «La popolazione lituana a Vilnius non diede rifugio agli ebrei».

Commentando la scarsità di salvatori in Lituania, Arad annota: «La possibilità di asilo nell’ambiente non ebraico era dettata da due condizioni di base: l’atteggiamento degli abitanti locali e la punizione che attendeva coloro che prestavano aiuto. Entrambe erano svantaggiose per gli ebrei. Un ampio segmento della popolazione locale era animato dall’antisemismo, approfittava dei guadagni illeciti provenienti da una proprietà ebraica abbandonata, e favoriva o era insensibile allo sterminio della comunità ebraica. Coloro che potevano assistere gli ebrei erano intimiditi dalla probabilità della punizione. Pochissimi vinsero le loro paure e prestarono aiuto».

Ma lo Yad Vashem, del quale Arad è stato responsabile per molti anni, ha – da quando la caduta del comunismo lo ha reso possibile – tributato omaggio a più di 400 salvatori lituani, molti di Vilnius. Mentre la ricerca continua nella Lituania indipendente, i casi di ben 2.000 altri lituani sono sotto esame per un possibile riconoscimento nel primo decennio del XXI secolo. Ma l’interesse per i Giusti non è universalmente accolto in modo favorevole.

In risposta alle richieste da me pubblicate per ricevere storie di salvataggio, un ebreo di nascita polacca, confuso, mi ha scritto: «Secondo me, è stato scritto abbastanza sull’aiuto cristiano per salvare gli ebrei. Penso che la messa a fuoco faccia perdere di vista i crimini commessi».

Un’altra corrispondente, una sopravvissuta di nascita polacca, Ella Adler, che viveva a Cracovia allo scoppio della guerra, ha scritto: «Grazie molto per la sua recente lettera nella quale mi chiede se ho avuto esperienza di g
entilezza da parte di non ebrei durante i miei quattro anni di carcere, negli anni dell’Olocausto. Mi dispiace dirLe che personalmente non mi ricordo di tale gentilezza durante quel periodo». Tali risposte non sono insolite. Ma Ella Adler aggiungeva di conoscere «una persona del nostro gruppo di Sopravvissuti all’Olocausto che ha avuto una tale esperienza» e che quindi avrebbe passato la mia richiesta a lui.

Baruch Sharoni, un membro del Comitato dello Yad Vashem che riconosce i Giusti, ha commentato: «Il numero di tali casi è incerto perché tra quelli che avrebbero potuto contribuire al salvataggio, molti non lo fecero». Ma Sharoni riflette anche: «Vedo i salvatori come anime nobili della razza umana, e quando li incontro mi sento alquanto inferiore a loro. Perché so che se fossi stato al loro posto, non sarei stato capace di tali azioni».

Molti sopravvissuti reagiscono con disagio, e persino con rabbia, quando pensano a quanta poca gente fosse pronta ad aiutarli. Gerta Vrbova, giovane ragazza slovacca durante la guerra, chiede: «Quali furono le ragioni per lo spaventoso comportamento della popolazione locale mentre i loro vicini di casa erano deportati verso destinazioni sconosciute? ».

Un sopravvissuto olandese, il dottor Maurits de Vries, scrive: «Vorrei sottolineare ancora il fatto che solo i relativamente pochi che furono salvati possono portare testimonianza, e che la voce di coloro che cadde nelle mani dei nazisti, per tradimento, non può essere udita».

Il professor Edgar Gold, che sopravvisse alla guerra in Germania come «bambino nascosto» e il cui padre sopravvisse a quattro campi di concentramento, incluso Auschwitz, scrive che suo padre spesso gli diceva che «i tedeschi non avrebbero potuto fare quello che fecero senza l’assistenza dei loro “aiutanti” ucraini, polacchi, estoni, lettoni, lituani, ungheresi e croati. Inoltre, il rastrellamento di ebrei in Francia, Olanda, Belgio, Italia, Grecia, Ungheria, Jugoslavia e persino Norvegia, non sarebbe stato così efficace senza un significativo “aiuto” locale.

Inoltre, mio padre affermava spesso che la crudeltà e la bestialità delle guardie dei campi di concentramento ucraini e degli stati baltici molte volte oltrepassava di molto la crudeltà fredda e calcolatrice dei tedeschi».

Da una parte collaborazionismo e tradimento gettano un’ombra sulla storia del salvataggio, sollevando il problema di quanti ebrei si sarebbero potuti salvare se la gente fosse stata disposta ad assumersi il rischio di aiutarli, ma al tempo stesso aumentano la luce che brilla su coloro che, invece, aiutarono, quasi sempre con grande rischio personale.

Henry Huttenbach, lo storico degli ebrei di Worms, scrive di un’anziana coppia di ebrei di Worms che fu accolta in un convento cattolico e così sfuggì alla deportazione: «Ebbero la grande fortuna di incontrare gente coraggiosa e onesta che li ospitò in un’Europa oltremodo ostile e disinteressata. Deve essere ricordato che coloro che sfuggirono ai campi, scapparono verso società avvelenate da sentimenti antisemiti. La grande maggioranza perì nelle mani dei collaborazionisti con il piano della Germania di sterminare gli ebrei: le guardie di confine svizzere che rifiutarono l’ingresso a chi aveva più di 16 anni, la polizia francese che arrestò gli ebrei stranieri, i polacchi che rifiutarono di nascondere gli ebrei fuggiti dal ghetto, o i partigiani russi che uccisero gli ebrei che tentavano di unirsi a loro nella comune lotta contro i tedeschi».

Ma, aggiunge: «In questa Europa moralmente depravata, c’erano isole di eccezioni, una persona onesta occasionale che rischiava la vita aprendo la propria casa, e un raro convento o monastero che aveva la “spina dorsale” morale di estendere l’asilo agli ebrei perseguitati piuttosto che solo a coloro che si erano convertiti al cristianesimo».

Queste “isole di eccezioni” e la “spina dorsale morale” dei salvatori sono centrali nella storia di un’Europa dominata dal nazismo in cui gli atti dei Giusti testimoniano la sopravvivenza dei valori umani e il coraggio di coloro che salvarono lavita umanapiuttosto che permettere che essa fosse distrutta. In ogni Paese sotto il dominio nazista l’istinto di aiutare rimase forte, nonostante un’estesa ostilità e indifferenza. Sei milioni di ebrei furono assassinati, ma decine di migliaia furono salvati.

In quasi ogni caso di un ebreo salvato, più di un non ebreo fu coinvolto nell’atto di salvataggio, che in molti casi durò per diversi anni. «Per salvare un ebreo – scrive Elisabeth Maxwell, riferendosi all’esperienza francese – ci volevano dieci o più persone»; e cita la storia di Alexander Rotenberg che attraversò il confine tra Francia e Svizzera. Leggendo la sua storia, nota che «più di 50 persone sono state direttamente coinvolte e necessarie nel suo salvataggio da Anversa, via Francia e Svizzera, e questo senza tener conto di tutti coloro che erano a conoscenza e chiusero gli occhi o non parlarono».

La storia dei Giusti è la storia di uomini e donne che rischiarono la propria vita e quella dei familiari per aiutare e salvare vite ebraiche: gente che, nelle parole di Si Frumkin, un sopravvissuto del ghetto di Kovno (Kaunas), «ignorarono la legge, si opposero all’opinione pubblica e osarono fare ciò che era giusto». Secondo la tradizione ebraica: «Chi salva una vita, salva il mondo intero».

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ZENIT Staff

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