In questi mesi più volte si è denunciato l’errore delle politiche utilitaristiche fondate esclusivamente sull’austerity e sul rigore di bilancio.
La storia economica c’insegna come le politiche di austerità in periodi di crisi siano devastanti e comportino esclusivamente un ulteriore aggravamento della crisi, come è successo in Europa e in modo particolarmente doloroso negli ultimi anni anche in Italia.
Finalmente, con incredibile onestà intellettuale, l’errore è stato ammesso da Olivier Blanchard già capo economista del Fondo Monetario Internazionale (FMI).
È di questi giorni un suo studio, con co-autore Daniel Leigh del dipartimento ricerca del FMI, dal titolo enigmatico – Errori Previsionali di Crescita e Moltiplicatori Fiscali – ma dal contenuto concreto.
La ricerca fa seguito a – e conferma – uno studio già apparso nel World Economic Outlook dell’ottobre scorso, che indicava come i piani di austerità e di rigore di bilancio nella zona Euro eseguiti in maniera violenta, avevano avuto un impatto negativo sulla crescita in maniera superiore a quanto originariamente stimato.
Quali, in sostanza, le conclusioni del paper di Blanchard-Leigh? Lo studio verte sul rapporto fra una riduzione del deficit pubblico e la crescita dell’economia. I modelli usati dalla troika (BCE, UE, FMI), per i programmi di aggiustamento dei Paesi che usano l’Euro si basavano su un moltiplicatore intorno allo 0,5: cioè stimavano che ad ogni 1 di taglio nel deficit avrebbe implicato una minore crescita di circa mezzo punto.
Lo studio di Blanchard-Leigh conclude che “i moltiplicatori impliciti nelle previsioni erano sottostimati, in media, di circa un’unità”.
Si comprende come passare da un moltiplicatore dello 0,50 ad uno di 1,5 è un errore pesante. Significa che ogni taglio di un 1 del deficit di bilancio, deprime la crescita in misura maggiore – nella fattispecie, 1,5. Un errore previsionale notevole, con conseguenze drammatiche.
Per spiegare l’abbaglio, Blanchard elenca vari fattori straordinari della Grande Recessione: tassi d’interesse già prossimi allo zero, e quindi l’impossibilità di controbilanciare l’azione fiscale con la politica monetaria; un sistema finanziario inefficiente, che ha fatto sì che i consumi siano dipesi maggiormente dal reddito attuale che da quello futuro; la presenza di ampie risorse inutilizzate; e la sincronizzazione continentale delle politiche di aggiustamento. Tutti fattori propri della crisi dell’Euro che hanno inficiato le stime vigenti dei moltiplicatori.
L’ammissione di questo errore darebbe quindi ragione ai tanti oppositori – anche nostrani – delle politiche di aggiustamento? Certamente no.
Il problema dell’aggiustamento dei conti pubblici resta essenziale in quasi tutte le economie avanzate. Da determinare è il ritmo di risanamento appropriato e sostenibile.
In altre parole, il risanamento dei conti pubblici deve avere il passo di una maratona, non di una gara dei cento metri. Di questa nuova consapevolezza l’FMI si è fatto portavoce anche all’interno della troika, purché vi siano programmi di rientro credibili a medio termine.
Che significa tutto ciò per l’Italia? Si ricordi che l’FMI ha già giudicato «appropriato» il ritmo di correzione previsto per il 2012-13, appoggiando l’enfasi su obiettivi strutturali (corretti dal ciclo), in modo da tener conto dell’andamento dell’economia reale.
Ha però largamente criticato la composizione del risanamento, invocando maggiori tagli alla spesa per permettere tra l’altro una riduzione dell’imposizione sul lavoro – che è la vera anomalia italiana. Sull’IMU, l’FMI ha chiesto una gradualità in relazione alla ricchezza posseduta. Ha anche richiamato più volte a una migliore utilizzazione del patrimonio pubblico, tramite le dismissioni.
Meglio infine se il rientro è blindato da legislazione di medio periodo. Sono questi i veri problemi che il prossimo governo dovrà affrontare.