Ci sono circa tremila detenuti italiani all’estero. C’è chi finisce in carcere per le proprie responsabilità e chi, purtroppo, perché vittima di una ingiustizia. Alcuni casi finisco bene, altri, se non addirittura con la morte, finiscono per rovinare la vita degli involontari protagonisti. Per sempre. In questo terribile scenario, qualche domanda ci viene spontanea. Cosa fa lo Stato Italiano?
Perché troppo spesso queste storie vengono taciute? Molte sono le difficoltà che gli italiani detenuti all’estero devono affrontare. Le spese legali sono elevatissime e, molto spesso, le famiglie non sono neanche in grado di permettersele. Le strutture consolari italiane dovrebbero assicurare l’assistenza per affrontare le complesse difficoltà linguistiche? E per sostenere le problematiche tecnico-giuridiche?
Nei casi che riguardano le persone già condannate, gli uffici consolari, secondo la Convenzione di Strasburgo, dovrebbero far ottenere al detenuto il trasferimento in Italia per far scontare la pena in uno dei nostri penitenziari. Perché non viene sempre fatto?
Inoltre, per gli Stati che non hanno ratificato la Convenzione di Strasburgo, il trasferimento dovrebbe essere condizionato dalla stipula di un accordo bilaterale. Anche in questo caso, perché questi accordi non vengono regolarmente stipulati?
Come abbiamo visto con il triste caso dell’omicidio della studentessa Meredith Kercher, avvenuto a Perugia, l’interessamento dei politici e dell’opinione pubblica può essere molto importante. Amanda Knox, cittadina statunitense, prima condannata per l’omicidio Kercher e recentemente liberata per non aver commesso il fatto, è stata supportata a gran voce dai suoi connazionali e dai media “made in U.S.A.”. E invece, cosa fanno i nostri media? E i nostri politici?
Il Libro Le voci del silenzio, storie di italiani detenuti all’estero (Eclettica Edizioni) non ha la presunzione di fungere da giudice e dichiarare l’innocenza a spada tratta dei nostri connazionali, ma semplicemente vuole dar voce a chi non ne ha.
Un atto doveroso nei confronti di chi, privato di tutte quelle garanzie giuridiche che sono alla base del diritto penale, è rinchiuso in pochi metri quadri di cemento armato in qualche angolo del mondo. Auspicando, il prima possibile, oltre che una sicura giustizia, una maggiore propensione – da parte del mondo politico, dei media di massa e, conseguentemente, dell’opinione pubblica – alla tutela degli italiani. Tutti.
Riteniamo che un’opera di sensibilizzazione in questo senso non possa certo passare attraverso la fredda cronaca dei fatti, che non consegna al lettore il messaggio di umanità violata ed offesa di cui queste tristi storie sono portatrici, e nemmeno per una descrizione, pur struggente, realizzata da soggetti terzi, persone non coinvolte direttamente e dunque incapaci di farsi interpreti del dolore e delle speranze disattese che le contraddistinguono.
E’ da questa consapevolezza che nasce la volontà di strutturare il lavoro mediante una raccolta di interviste, sei, realizzate con familiari o amici dei detenuti oppure, nei casi di Carlo Parlanti e Fernando Nardini, con i protagonisti stessi di due delle tremila storie in questione.
Proprio l’intervista a Parlanti, avvenuta telefonicamente dalla prigione californiana di Aval, apre il lavoro. Purtroppo, per quanto il messaggio di energia e perseveranza traspaia chiaramente dalle parole profonde di Parlanti che noi abbiamo riportato, il lettore non potrà mai avvertire quella forza che solo ascoltandone il tono di voce indomito è possibile cogliere.
La condizione di isolamento e discriminazione che si vive in certe carceri nel mondo è testimoniata dal fastidioso intervento di una voce registrata che, interrompendo ogni due minuti la nostra conversazione telefonica, avvertiva l’intervistatore, a mo’ di ammonimento o di ostruzionismo gratuito, del fatto che si stava parlando con un criminale.
ll “faro della democrazia occidentale”, ovvero gli Stati Uniti, sono i protagonisti di altre due delle nostre riprovevoli storie. Faro di democrazia dispensatore di luce fioca, quello americano, se non addirittura fulminato e motivo d’oscurità: questo ci viene spontaneo considerare, se pensiamo anche a quanto avvenuto a Enrico “Chico” Forti, un nostro connazionale detenuto in un carcere di Miami ormai dall’ottobre 1999 con l’accusa di omicidio e condannato all’ergastolo, nonostante non sia mai stata presentata dall’accusa, durante questi dodici anni, una minima prova che potesse inchiodarlo su questa presunta colpa.
A proposito di quel discutibile “faro”, in questa raccolta trova spazio anche una delle moltissime storie lastricate di sangue innocente ambientate nei cosiddetti “bracci della morte” degli Stati Uniti: quella di Derek Rocco Barnabei.
Un giovane nato e cresciuto in Virginia, bensì di origine italiana (e questo ha costituito, verosimilmente, un grave, razzistico aggravante in sede processuale), che ha conosciuto l’atrocità del sistema giuridico dello Stato della Virginia, giacché ucciso da un’iniezione di veleno che ha espletato una condanna a morte emessa nei suoi confronti dopo un processo che dà adito a forti e giustificati dubbi circa la sua equità.
L’intervista a Fabrizio Vigni, rappresentante del mondo politico italiano che sino all’ultimo respiro esalato da Barnabei ha combattuto per evitare lo scempio di quella condanna a morte, ci aiuta a ripercorrere la triste vicenda che ha, perlomeno, ispirato una battaglia contro la pena di morte nel mondo.
Morte che ha conosciuto in carcere e in circostanze misteriose, nell’estate 2011, Mariano Pasqualin, un italiano arrestato in Repubblica Dominicana per droga. La sorella Ornella, dispensatrice di quella fusione tutta femminile di dolcezza e spirito invitto, racconta la storia, sino al tragico epilogo, di cui è stato involontario protagonista suo fratello Mariano.
C’è poi il racconto diretto di Fernando Nardini, che ha conosciuto l’inferno delle carceri thailandesi dopo essere stato incastrato da una sua ex moglie del posto e che, ancora oggi, non potendo uscire dalla Thailandia, teme che l’incubo si riaffacci nuovamente sulla sua vita. In Asia, in India precisamente, si trovano anche Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni, due italiani finiti in carcere dopo aver assistito, increduli ed impotenti, alla morte dell’amico con cui erano in vacanza, Francesco Montis.
Marina Maurizio, mamma di Tomaso Bruno, ci spiega come suo figlio e la sua amica siano incappati in questa disavventura e quali lente e farraginose aspettative legali rendono ancora non vana la speranza per questi due giovani italiani. Infine, due esplicative interviste circa la vocazione a donarsi che anima alcuni uomini e alcune donne: abbiamo intervistato Katia Anedda, presidente di “Prigionieri del Silenzio”, Onlus che si occupa della tutela dei diritti degli italiani detenuti all’estero, e Giovanni Falcone, padre di un ragazzo passato per il girone dantesco della giustizia indiana, che oggi si occupa di storie simili grazie alla gestione di un blog dal nome “Liberi!!! Per Angelo e i 3000 dimenticati”.
Sei su tremila è una percentuale minuscola, ma proprio per questo indicativa di un sottobosco che, maturando all’ombra del palcoscenico mediatico, è foriero di ingiustizie e sofferenze colpevolmente dimenticate. Il nostro auspicio è che questo esile “sei su tremila” possa, in quanti leggeranno queste pagine, costituire una breccia che spalanca le porte dell’anima e innesta un tarlo nella coscienza. Affinché le voci dei tremila trovino risonanza sul suolo patrio e possano così rompere quella coltre di silenzio che non dà lustro all’Italia.
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