La prima parte dell’articolo di Padre Gheddo è stata pubblicata ieri, sabato 29 dicembre 2012.
Carmen Benaglio: “Enrico era la disponibilità e l’accoglienza in persona. Sapevo di ex carcerati che uscivano dal carcere e si rivolgevano a lui perché mancavano di tutto: cibo, vestiti, coperte. Capitava che lo chiamassero anche due volte per notte, per trovare un posto da dormire. Lui la sistemazione la trovava sempre. Era disponibile ad aiutare materialmente, ma anche psicologicamente”.
Giuseppe Canella: “Per noi Enrico non era Enrico. Alle riunioni di Mani Tese lo chiamavamo “capo”. Un compleanno gli abbiamo regalato un cubo di legno con la scritta: “Il capo sono io”. Lui era in grado di gestire tutti, giovani, meno giovani, pensionati. Sembrava un bambino dall’entusiasmo che sprigionava e sempre con la carica di un ventenne”.
Daniela Caccia: “Era un uomo di fede. Al campo di lavoro ripeteva che non era obbligatorio partecipare alla Messa e pregare, ma ci rimaneva male se vedeva poca partecipazione e non mancava di farlo presente agli interessati”.
Laura e Maurizio Mantegazza: “Siamo molto riconoscenti ad Enrico per quello che ha fatto per noi: mettere la nostra vita nelle mani l’uno dell’altra, facendoci conoscere durante un campo di lavoro in Africa (Burkina Faso), conoscenza che poi è sfociata nel matrimonio, scelta che stiamo portando avanti da trent’anni”.
Quattro ragazze che partecipavano a Mani Tese fin dagli anni ’70, Luisella Zappa, Giuditta Barlassina, Piera Restelli, Graziella Levati, ricordano: “Se qualcuno gli suggeriva che per risolvere i problemi del Terzo mondo bisognava sensibilizzare l’opinione pubblica e agire all’interno delle strutture politiche, Enrico rispondeva che chi ha fame e sete non può aspettare e quindi si doveva fare subito di tutto e anche di più. I suoi impegni nel sociale erano molteplici e nel suo cuore infatti non c’erano soltanto l’Africa e i missionari, ma anche i carcerati e i senza tetto che a lui si rivolgevano in cerca di aiuto, ai quali andava incontro con generosità e dedizione. Cercava sempre di aiutare chi si rivolgeva a lui per qualsiasi necessità e con vero altruismo, senza pretendere nulla in cambio e senza paura di mettersi in gioco anche in prima persona”.
Donata Meroni: “Ciò che apprezzavo in Enrico erano la sua umiltà, disponibilità e generosità. Sapeva infondere sicurezza con la sua calma e autorevolezza….Pensando all’eredità che Enrico ci lascia, vorrei ricordare il richiamo alla sobrietà nell’uso dei beni, nella ricerca del guadagno. Tale sobrietà rimandava all’autenticità dei valori e della persona, la capacità di essere veri, senza fronzoli e sovrastrutture. Il messaggio che ci invia ancora oggi è di spendere la nostra vita per gli altri, non tenersela per sé stessi, accontentandosi del piccolo gruppo, della famiglia e degli amici. Penso che il motore della sua vita fosse la sua fede, forte e semplice, che non si esprimeva in esposizioni teologiche o prediche, ma in azioni: “Quello che avete fatto ad uno di questi piccoli, l’avete fatto a me”, come ha detto Gesù”.
Giustina e Mario Meroni: “Enrico e Maria avevano quattro figli come noi: le problematiche erano le stesse. Enrico amava molto la moglie Maria e i suoi figli: quando erano ammalati si preoccupava molto. Era un padre stupendo!”.
Enrico era cordiale, scherzoso e geniale nelle sue trovate. Nei viaggi che faceva in Africa, in Burkina Faso e in Benin con numerosi volontari, si trattava di andare a vivere poveramente in qualche missione da aiutare. Gianpiero Caironi racconta: “I lavori erano sempre pesanti e non sempre avevamo voglia di faticare troppo. Allora Enrico doveva trovare degli espedienti per invogliarci. Una volta chiede chi è disposto a fare un lavoro culturale e tutti rispondiamo con entusiasmo. Fregati tutti! Si trattava di spostare una biblioteca!”.
Un’ultima testimonianza, quella del parroco di Gorgonzola durante gli anni di Enrico, don Erminio Pozzi, la cui testimonianza penso che sia la più significativa e completa: “Enrico era un grande uomo, buono e generoso, incapace di pensare solo a se stesso, un uomo con un cuore che abbraccia il mondo intero. Essere così è senz’altro qualcosa di straordinario, che nobilita l’uomo, ma che comporta anche delle fatiche, dei problemi, delle difficoltà proprio perché, quando uno abbraccia il mondo intero può rischiare di mettere un po’ da parte quelli che possono essere le persone più vicine… Anzitutto Enrico aveva una grande fede cristiana ereditata dai suoi genitori, plasmata dall’educazione cristiana che ha assorbito nella parrocchia di Gorgonzola. Questo è stato il fondamento di Enrico, che lo ha accompagnato anche nei giorni più difficili della sua vita….”.
“Enrico credeva che la nostra vita è sempre nelle mani di Dio, è Lui che la guida anche quando le vicende dell’esistenza possono agitate come quelle di un mare in burrasca… Gli ultimi anni di Enrico sono stati segnati dalla sofferenza e dalla prova. Non ci sono colpe da distribuire. Quasi mi viene da dire che la sua “conclusione” non poteva essere diversa da come è stata. E’ il mistero di chi è chiamato a vivere una vita sopra le righe. Anche Cristo ha terminato la sua vita con una bruta morte, per di più vergognosa, la crocifissione.
Ma la fecondità della vita di Cristo nasce proprio dalla Croce, dalla morte in Croce. Il dolore di Enrico è stato anche il dolore della moglie, dei figli delle sorelle e dei fratelli. Tutti sono stati coinvolti… Se Enrico è stato un “segno forte” per la città, lo dobbiamo anche alla moglie, ai figli, che hanno accettato alcune volte di essere stati privati di determinate attenzioni perché il marito, il papà era dedito, con dispendio di tempo e di energie, a portare il bene ad una famiglia più grande”.
Concludo con un augurio di Buon Natale a tutti. Enrico Brambilla ci ricorda che la carità dei cristiani è il miglior annunzio di Cristo. Ha dato una bella testimonianza di fede attraverso il suo impegno di amore al prossimo più povero.. Questo il messaggio del Natale: Dio si fa uomo per amore e chiede ai suoi fedeli di esercitare l’amore, la carità, l’aiuto che possiamo dare a chi è nel bisogno. Non basta commuoversi davanti al Bambino Gesù, risentendo le dolci canzoni natalizie. Dobbiamo impegnarci in qualche opera buona, secondo le nostre possibilità, ma soprattutto vivere la vita per gli altri.