Riportiamo di seguito il testo integrale dell’omelia del cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, in occasione della Santa Messa per la festa della Sacra Famiglia, celebratasi stamattina nella chiesa parrocchiale della Sacra Famiglia a Bologna.
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La prima lettura ci dona un grande insegnamento, e di drammatica attualità. Essa inizia con la constatazione di un fatto comune: «Anna concepì e partorì un figlio e lo chiamò Samuele».
Ma questa donna ne dà l’interpretazione più profonda: «dal Signore l’ho impetrato». L’esistenza di questo bambino non trova la sua spiegazione ultima nel concorso di leggi biologiche, ma in una decisione gratuita del Signore: è un dono fatto dal Signore ad una donna che glielo chiedeva come grazia.
La conseguenza che Anna deriva da tutto questo è la seguente: «il Signore mi ha concesso la grazia che gli ho chiesto. Perciò anch’io lo do in cambio al Signore: per tutti i giorni della sua vita egli è ceduto al Signore».
Questo bambino, la sua persona non può essere considerata semplicemente frutto del grembo di sua madre, una sorta di sua proprietà esclusiva. Ella la cede per sempre al Signore. Questa stupenda pagina ha una profonda analogia colla narrazione evangelica.
Il momento centrale del racconto è costituito dal dialogo fra Gesù, dodicenne, perduto e ritrovato nel Tempio, e sua Madre Maria.
Fermiamo la nostra attenzione sulla risposta di Gesù: «perché mi cercavate? Non sapete che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Gesù in primo luogo si stupisce di fronte ad un fatto che come Maria e Giuseppe, anche noi riteniamo normale: avendo perduto il figlio, non possono che mettersi a cercarlo con grande angoscia. Quale è la ragione delle stupore di Gesù? È qui che tocchiamo il nucleo centrale della pagina evangelica.
Gesù si trova là dove deve, non può non essere: «nelle cose del Padre». Egli rivela chi è il suo vero Padre. Non è Giuseppe. È un Altro, Dio stesso. “A Lui io appartengo” è come se Gesù dicesse “non posso trovarmi come figlio che nella casa del Padre mio”. E Gesù usa un verbo molto forte: «devo». Nei Vangeli viene usata questa parola quando si parla di una disposizione del Padre nei confronti di Gesù, alla quale Egli obbedisce. Gesù rivela quindi un’appartenenza ben più forte che quella che lo lega a Maria, e ovviamente a Giuseppe.
Vi dicevo che l’insegnamento su cui convergono la prima lettura e la pagina evangelica è di drammatica attualità. Per molte ragioni, sulle quali ora non posso dilungarmi molto, ma che devo almeno accennare.
È convinzione di molti ormai che il figlio non può essere semplicemente “aspettato”, ma deve essere “voluto”. Certamente dietro a questo cambiamento di prospettiva ci può essere quell’attitudine che anche la Chiesa raccomanda quando parla di procreazione responsabile. Ma normalmente ormai non è di questo che si tratta. E il rapporto del genitore col figlio “voluto” è profondamente diverso dal rapporto col figlio “venuto” [desumo questo vocabolario assai felice da A. Polito, Contro i papà, Rizzoli, Milano 2012].
La diversità consiste nel fatto che il figlio “voluto” rischia di essere considerato non come qualcuno, ma come qualcosa di cui ormai ho bisogno per il mio benessere psicologico. Il passaggio poi alla visione coerente del figlio come “proprietà” è, in questa logica, un rischio assai reale. Esattamente il contrario di quanto ci dice oggi la parola di Dio.
La conseguenza più grave di questo profondo cambiamento culturale nel rapporto genitori-figlio è che la coppia si attribuisce l’autorità di dare un giudizio sul diritto o non all’esistenza del figlio concepito, ma non voluto. Si è così legittimata anche la soppressione del medesimo, sulla base dell’ideologia “a favore della scelta” [pro-choice].
Ma nello stesso tempo – e si tratta solo di una contraddizione apparente con ciò che ho appena detto – se il rapporto giusto è solo col figlio “voluto”; se egli diventa qualcosa di necessario per la propria felicità, viene logicamente legittimata ogni tecnica che possa produrre il figlio voluto. E il prodotto è a disposizione del produttore.
Cari fratelli e sorelle, desidero concludere attirando la vostra attenzione su un particolare del racconto evangelico. Parlando di Maria e Giuseppe, l’evangelista dice: «essi non compresero ciò che aveva detto loro» e di Maria aggiunge: «sua madre custodiva tutte queste parole nel suo cuore».
Potete costatare il cammino della fede di Maria. Ella non è ancora in grado di penetrare nel senso delle parole di Gesù; ma ella non per questo le rifiuta. Al contrario le custodisce nel suo cuore, le medita, fino ad esserne pienamente illuminata.
In una cultura in cui l’origine di una nuova persona umana non è più compresa nel suo significato più profondo, non dono di Dio ma frutto casuale di leggi biologiche sempre più sottoposte al dominio tecnico dell’uomo, custodite nel cuore la Parola che oggi vi è detta, e così sarete veri testimoni della verità dell’uomo.