Ripendiamo di seguito la lettera inviata in occasione del Natale dal presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, Julián Carrón, al direttore de Il Corriere della Sera, e pubblicata sull’edizione del 23 dicembre 2012 del quotidiano milanese.
La lettera sarà anche l’editoriale di Tracce di gennaio.
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Caro Direttore,
le difficoltà che ci troviamo ad affrontare, da quelle personali (precarietà, se non perdita del lavoro, malattie, fragilità umane, smarrimento esistenziale, male fatto o subito) a quelle collettive (crisi economica, disagi sociali, confusione politica, incertezza internazionale), sono così imponenti che potrebbero indurre a ritenere inevitabile la scomparsa di ogni attesa. Eppure mai come in queste circostanze risulta evidente quanto siano vere le parole di Dante a noi familiari: «Ciascun confusamente un bene apprende / nel qual si queti l’animo, e disira: / per che di giugner lui ciascun contende».
Ma che lealtà occorre in ciascuno di noi per riconoscere questa attesa e questo desiderio di bene! Quello che rende più difficile questo riconoscimento è il clamore sociale che tutti concorriamo a generare con la nostra connivenza. Infatti, «tutto cospira a tacere di noi, un po’ come si tace di un’onta, forse, un po’ come si tace una speranza ineffabile» (Rilke). Ognuno di noi sa bene fino a che punto dà il proprio contributo a questa cospirazione.
Chi l’avrà vinta? La parte di noi che attende o quella che cospira?
L’indizio di una risposta ci viene da Pavese, che ha colto come nessun altro il persistere in noi di questa attesa: «Com’è grande il pensiero che veramente nulla a noi è dovuto. Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?». Infatti, perché continuiamo ad attendere anche nelle situazioni più disperate? Perché nessuna sconfitta personale o crisi storica riesce a cancellare da ogni fibra del nostro essere il barlume, sebbene inconsapevole, di un’attesa? Perché questa attesa ci costituisce nel profondo, tanto che «si affaccia ancora oggi, in molti modi, al cuore dell’uomo» (Benedetto XVI). Anche se ridotto, trascurato e osteggiato, il cuore non cessa di desiderare.
Non di rado l’impossibilità di strapparci di dosso questa attesa può sembrare una condanna. Ma gli spiriti più acuti identificano altrove la vera condanna. Ne Il mestiere di vivere, sempre Pavese ci ricorda che «aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettar niente che è terribile». Tutti sappiamo che cosa diventa la vita quando non aspettiamo più nulla: una noia che finisce nella disperazione e nel cinismo. Attendere è la struttura del nostro essere. La sostanza del nostro io è l’attesa.
Ora, malgrado questa nostra struttura originale, tante volte facciamo fatica a sperare. Quanto ha ragione Péguy quando ci ricorda che «per sperare occorre aver ricevuto una grande grazia». Ma quale grazia può essere all’altezza della sfida e sostenere la speranza di fronte a qualsiasi eventualità?
Precisamente a questo livello ci viene incontro l’avvenimento che celebriamo nel Natale. L’annuncio cristiano si rivolge all’io di ciascuno di noi, sfidando ogni scetticismo e sfiducia, come risposta imprevedibile alla nostra ferita. Per farsi risposta che l’uomo possa sperimentare, l’Infinito ha assunto una forma finita. Nel Natale è abolita la distanza altrimenti incolmabile tra il finito e l’Infinito.
In questa prospettiva, avere fede non significa piegarsi a una serie di precetti, studiare una dottrina o partecipare a una organizzazione: la fede cristiana è riconoscere il divino presente nell’umano, come fu per Simone, la Maddalena, la Samaritana, Zaccheo, colpiti da una presenza che destava l’improvviso presentimento di una vita diversa. Non erano le gambe raddrizzate, la pelle mondata, la vista riacquistata a colpirli. «Il miracolo più grande era uno sguardo rivelatore dell’umano cui non ci si poteva sottrarre» (don Giussani).
La Chiesa celebra il Natale affinché anche noi possiamo fare esperienza di questo abbraccio che afferra la nostra umanità, la mia e la tua, per compiere quell’attesa che vibra in ogni mossa del nostro cuore inquieto. Come duemila anni fa, anche oggi il significato dell’esistenza si rende presente attraverso una realtà umana che si può vedere e toccare, dentro un tempo e un spazio, ci raggiunge con un inconfondibile accento di promessa e di speranza al quale ci possiamo legare, dentro la vita della Chiesa.
Questa è la grazia, il nuovo inizio nel mondo, il cui primo testimone è Benedetto XVI: «Giustamente, nessuno può avere la verità. È la verità che ci possiede, è qualcosa di vivente! Noi non siamo suoi possessori, bensì siamo afferrati da lei. Dio ci è diventato così vicino che Egli stesso è un uomo: questo ci deve sconcertare e sorprendere sempre di nuovo!».
Buon Natale a tutti.