La prima parte dell’intervista a monsignor Vincenzo Paglia è stata pubblicata ieri, sabato 22 dicembre.
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Eccellenza, in un suo libro, intitolato In cerca dell’anima, Lei descriveva un paese, l’Italia, in grossa crisi di identità umana e spirituale. Questa “perdita dell’anima” è un problema anche mondiale? Il Natale può aiutarci a ritrovare l’anima perduta?
Mons. Paglia: È un mondo che rischia di perdere l’anima, perché pensa che l’anima sia solo il mercato, il conflitto, il prevalere sugli altri ma non l’amore. Ma l’anima che può rendere vivibile il mondo è solo l’amore, è solo quel Bambino piccolo, che viene al mondo, appunto perché tutti possano accogliere l’amore. In tal senso noi cristiani abbiamo un indispensabile compito: aiutare gli uomini di tutte le fedi e di tutte le culture a ritrovare l’anima.
Come può il Natale tornare a essere la festa della famiglia?
Mons. Paglia: C’è un semplice detto popolare che però ha un suo profondo senso: “Natale coi tuoi”. È come se, a Natale, anche a livello popolare, si sentisse il bisogno di stare in casa. Secondo me è molto profondo questo bisogno. A Natale vediamo che anche Gesù per nascere ha bisogno di una famiglia, anche Dio per salvare gli uomini ha bisogno di una famiglia e deve chiedere l’assenso di Maria e, attraverso l’angelo, anche di Giuseppe. In questo senso il Natale mostra la bellezza e la preziosità della famiglia per tutti. Penso a quei poveri pastori, perseguitati dalla società ebraica del tempo che furono i primi ad accorrere, trovando Maria, Giuseppe e il Bambino, quindi una famiglia – certamente singolare ma certamente famiglia. Per questo il mistero del Natale coinvolge in maniera diretta e molteplice le nostre famiglie. Ricordo da bambino, quando scrivevo la lettera da mettere sotto il piatto, ricordo l’allestimento del presepe che coinvolge tutta la famiglia, per avere dentro casa questo mistero, ricordo la bellezza della messa di mezzanotte che commuove tutti (e se quella notte nevica non rimaniamo a casa, siamo spinti ancor più ad andare!). Ecco perché il legame tra Gesù che nasce e la famiglia è uno degli aspetti più evidenti di questo mistero. Basti pensare al coinvolgimento degli artisti sul Natale: credo non ci sia poeta, pittore o scultore che non si sia confrontato con questo mistero.
In che modo la Sacra Famiglia di Nazareth è un modello per le famiglie di ogni tempo e luogo?
Mons. Paglia: “Venne a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua Madre custodiva tutti questi fatti nel suo cuore” (Lc 2,51). Queste righe del Vangelo di Luca descrivono trent’anni di Santa Famiglia. La famiglia di Nazareth è un grande esempio, tant’è che, l’icona che ha guidato l’evento di Milano e che ora custodiamo nel nostro dicastero è, appunto, l’icona della Santa Famiglia, il cui centro è Gesù. Non dobbiamo allora pensare che ogni famiglia debba tornare ad avere Gesù come centro ed ispiratore? Non dobbiamo augurarci che i genitori si preoccupino dei figli come Maria e Giuseppe? Certo, non una preoccupazione ossessiva: Gesù aveva la libertà di andare con i parenti, persino di “scomparire”. Allo stesso tempo come possono i genitori non riflettersi nel rapporto che avevano Giuseppe e Maria? Vediamo una delicatezza straordinaria di rapporti, un’attenzione reciproca unica, non perché fossero sempre d’accordo, anzi ci fu un momento piuttosto critico e Giuseppe ebbe bisogno dell’angelo. Non hanno bisogno di angeli anche le famiglie di oggi? Se la famiglia resta sola, è difficile che sopravviva. Anche noi abbiamo bisogno di angeli che ci aiutino, che ci spieghino e ci sollecitino a riscoprire l’affetto. L’amore è un arte non è un sentimento. Purtroppo oggi è scambiato come sentimento, quindi come tale “mobile”. L’amore è la nostra costruzione di una casa, l’amore è un progetto, l’amore è amicizia, è perdono, è costruire assieme un sogno che permanga. Lo è anche la famiglia di Nazareth, sia pure in maniera non organica.
In qualità di parroco della basilica di Santa Maria in Trastevere, Lei è stato, assieme alla Comunità di Sant’Egidio, l’ideatore del pranzo di Natale con i poveri. Dopo il suo ritorno a Roma, come presidente di un dicastero vaticano, questo Natale avrà occasione di tornarci?
Mons. Paglia: Vi parteciperò anche perché quest’anno ricorre il trentesimo anniversario. Questo pranzo nacque dal bisogno di offrire un gesto “robusto” che esaltasse il cambiamento che avveniva nella storia con la nascita di Gesù. Questo cambiamento doveva avere un risvolto “familiare”. L’idea fu molto semplice: a Natale tutti vanno in famiglia, ma quelli che la famiglia non ce l’hanno, le persone sole, quelle che vivono per strada? Dove vanno? Ecco l’idea di aprire la basilica agli abbandonati, perché fossero loro la famiglia di Gesù. Insomma, una sorta di “presepe alla rovescia”: viene Gesù sulla terra e gli diamo una stalla; vengono i poveri e noi diamo loro una basilica. In tal senso questi trent’anni hanno mostrato la bellezza di un gesto come questo. Il pranzo di Natale con i poveri si fa ormai in tutto il mondo, con più di 130mila ospiti ogni anno, ed è colto in questa prospettiva. Ricordo quando San Francesco d’Assisi parlava del Natale, dicendo che era il giorno più bello e che anche i poveri devono gioire. Diceva: “Se dovessi parlare con il governatore di tutte le nazioni, farei spargere da mangiare in tutte le strade del mondo e in tutte le città, perché anche gli uccelli del cielo, anche gli animali gioiscano e mangino, a partire dai più poveri”. Del resto Betlemme vuol dire “città del pane”. Ecco perché partecipare per quest’anno al pranzo di Natale, dopo trent’anni dalla nascita, è una conferma dell’importanza che il Natale non sia un giorno vuoto o magari solo pieno di lampadine per le strade ma non nel cuore. Ricordo un’anziana povera di Ostia, in uno dei nostri pranzi, seduta vicino a me. A un certo momento alzò lo sguardo, ammirando i mosaici di Santa Maria in Trastevere, il cassettonato in oro, le più di 400 persone in festa. Poi mi disse: “Don Vincenzo, oggi, quasi quasi, stiamo meglio noi del Papa…”.