di Daniele Trenca
ROMA, martedì, 18 dicembre 2012 (ZENIT.org) – Il monastero di Visoki Decani si trova nel Kosovo occidentale e per giungervi bisogna lasciarsi alle spalle la città albanese di Decan. E’ uno dei quattro monumenti kosovari inseriti nel Patrimonio Mondiale dell’Unesco, ma iscritto al tempo stesso nei siti dei luoghi in pericolo. La chiesa, capolavoro del XIV secolo dell’arte romano-bizantina, è circondata da montagne e foreste e si trova nella parte occidentale del Paese. Il problema che risale a questo posto è strategico, irrisolto da anni.
Questo luogo sacro rappresenta un caso estremo: trenta monaci serbi in un territorio totalmente albanese che richiede una protezione costante delle forze dell’ordine per non scendere nell’odio e nel nazionalismo che vorrebbe cancellarli dalla regione kosovara. Molti dei religiosi serbi durante la guerra si prodigarono nella difesa di kosovari albanesi minacciati di pulizia etnica da Milosevic.
Padre Andrej ha vissuto i bombardamenti del1999. Inquell’occasione più di 150 edifici religiosi furono bombardati, di cui quasi la metà risalenti all’epoca medievale. Vorrebbe dedicarsi totalmente alla vita monastica che scelse tanti anni fa: «Dio ha fatto di me un uomo che deve esporsi molto di più di quanto vorrebbe».
I Balcani, da sempre rappresentano una cerniera in Europa tra la cultura occidentale e quella orientale, crocevia di interessi economici e politici, regioni in cui da sempre sono presenti molte etnie, a volte diametralmente opposte tra loro. Un mix che porta allo scontro di religioni: musulmana, cattolica e ortodossa che finisce per dividere e rendere conflittuale il loro rapporto. Gli scontri etnici tra serbi ed albanesi, sfociati nella guerra alla fine degli anni Novanta, ha cambiato profondamente il rapporto tra i due popoli. I primi hanno deciso di non abbandonare il Paese raggruppandosi nel Nord del Kosovo, intorno alla città di Kosovska Mitrovica o vicino alla capitale Pristina. In poco più di un decennio sono passati da 2.000 ad oltre 10.000 abitanti.
Una delle grandi spine nel fianco del giovane stato europeo è proprio questa presenza serba, che seppur residua, mina la tranquillità del Paese. Il simbolo della loro resistenza in Kosovo è il Patriarcato di Pec, cuore della Chiesa Ortodossa serba, un po’ come il Vaticano per i cattolici.
Eppure non mancano i segnali di distensione tra le due etnie così ostili. Nella scorsa primavera i monaci di Visoki Decani e tutti i religiosi del Paese hanno ottenuto i documenti di identità kosovari, così come l’immatricolazione di targhe kosovare per le loro auto.
Un enorme passo avanti se si considera chela Chiesaortodossa serba non riconosce l’indipendenza del Kosovo. A minare il già fragile equilibrio tra le due popolazioni ci si mettono anche le forze dell’ordine, che hanno ridotto drasticamente gli uomini KFOR. Dei circa tredicimila del 2009 oggi se ne contano seimila appena. «La nostra nazione – ha concluso Padre Andrej – ha vissuto dimenticando Dio durante tutto il periodo comunista».
Questo territorio rappresenta una delle regioni più ricche della ex Jugolavia, dal punto di vista culturale, storico e spirituale. Prima appartenente alla Serbia, essendo diventato Stato a se il Kosovo è considerato una estensione dell’Albania, vista la nutrita presenza di albanesi. E’ qui che si concentra lo scontro etnico: da una parte i serbi (ortodossi) e dall’altra turchi, bosniaci e albanesi che professano la religione musulmana. Esigua la presenza di albanesi cattolici.
Il Kosovo è diventato uno Stato indipendente da quasi 5 anni, e da allora l’albanizzazione del Paese non ha trovato troppi ostacoli. Se all’epoca di Milosevic i serbi rasero al suolo oltre duecento delle 560 moschee presenti sul territorio, oggi gli albanesi musulmani fanno lo stesso con le chiese ortodosse. Una situazione irrisolta e difficile, proprio nel Paese che ha portato in Europa una ventata di novità per avere il primo presidente donna: Atifete Jahjaga eletta nell’aprile del 2011.