di Paolo Lorizzo*
ROMA, sabato, 15 dicembre 2012 (ZENIT.org).- Seppur la Basilica di S. Croce in Gerusalemme conserva soltanto pallidi ricordi dell’epoca in cui venne costruita (soltanto alcune rovine nei dintorni ne tradiscono l’origine romana), grazie alla maestosità dell’impianto, nonché all’impostazione moderna, suscita notevole suggestione. Oggi la sua importanza è strettamente legata alla tradizione, dettata dal fatto che l’edificio è custode di alcune reliquie portate da Sant’Elena a Roma in seguito ad un suo viaggio in Terrasanta.
Nonostante comprovarne l’autenticità sia una vera e propria impresa, la spinta morale della fede permette di superare qualsiasi dubbio e rende gli interrogativi assolutamente superflui. Presso l’antica sacrestia della Basilica, nel cosiddetto ‘Santuario della Croce’, sono conservati alcuni frammenti della Croce su cui Gesù trovò la morte, di una delle croci dei ladroni che vennero crocifissi insieme a Cristo, la spugna imbevuta d’aceto con cui venne ‘dissetato’ Gesù sulla Croce prima di spirare, una porzione della corona di spine originariamente posta sul capo, uno dei chiodi del martirio e il cosiddetto titulus crucis. Questo titulus (una tavola di legno di noce) si riteneva potesse essere la famosa iscrizione che viene citata dai quattro vangeli, che venne apposta sulla croce indicante la motivazione della condanna. Esibire tale motivazione era infatti una prescrizione del diritto romano, che permetteva la rapida identificazione del condannato. Nelle rappresentazioni artistiche della crocifissione si indicano soltanto le quattro lettere (‘INRI’), acronimo dell’espressione in lingua latina Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum (‘Gesù il Nazareno, Re dei Giudei’).
Un recente e accurato studio del manufatto ha stato stabilito che in realtà è molto più tardo di quanto la tradizione gli attribuisce (X-XII secolo), pur non scalfendone l’importanza storica.
Dubbi e sospetti hanno minato anche l’originalità dei frammenti della croce di Cristo, semplicemente perché è stata rinvenuta soltanto tre secoli dopo la sua morte. L’attestazione del ritrovamento inoltre è riportata soltanto da fonti molto più tarde, il che lascia pensare che quanto conservato nella basilica sia in realtà databile al IV secolo. Una conferma arriverebbe dalla ‘Vita di Costantino’, testo scritto nel 337 d.C. da Eusebio di Cesarea, in cui si narra la scoperta della tomba di Gesù ma non della sua croce, alla stessa stregua delle fonti successive.
Un altro elemento distintivo era rappresentato dal pavimento situato all’interno della cappella di preghiera di Sant’Elena (considerato talmente santo che in epoca medievale l’accesso era precluso alle donne), ricoperto da uno strato di terra proveniente dalla Terrasanta e che probabilmente contribuiva a creare ancor più quel mistico clima di fede che avvolgeva il suo luogo privato di preghiera durante le funzioni religiose, a cui assisteva in gran segreto senza essere vista dai fedeli in basilica.
La cappella di Sant’Elena è stata nei secoli continuamente abbellita, ma è a partire dalla tarda età medievale che il suo aspetto cambia radicalmente. Nel XIV secolo venne realizzata l’icona musiva attualmente visibile all’interno del museo della Basilica, fatta realizzare da papa Gregorio I a memoria di una sua visione di Cristo. Nel 1485 venne realizzato un magnifico mosaico su disegno di Melozzo da Forlì raffigurante ‘Gesù benedicente attorniato dagli evangelisti’, di chiaro gusto paleocristiano, rispettando probabilmente il contesto storico di collocazione. Tra il 1601 e il 1602 vennero qui conservate tre pale d’altare realizzate da Peter Paul Rubens durante la sua prima fase artistica. Due di queste pale sono conservate nella città di Grasse in Provenza presso la Cathédrale Notre-Dame-du-Puy (una rappresenta ‘l’Incoronazione di Spine’ mentre l’altra Sant’Elena). La terza pala, rappresentante ‘L’Elevazione della Croce, andò sfortunatamente distrutta nel ‘700.
Gli affreschi realizzati per il catino absidale sono attribuiti, oltre che a Melozzo da Forlì, anche ad Antoniazzo Romano e a Marco Palmezzano, nonostante risentano fortemente dall’influenza artistica del primo.
Con l’avvento del ‘700 si procede ad una notevole (e spesso mortificante) ristrutturazione che non solo altera in maniera significativa l’esterno ma cambia il volto anche dell’interno. Seppur possegga un meraviglioso pavimento ‘cosmatesco’, non possiamo esimerci dal notare la desolazione monocromatica dei soffitti e delle pareti delle navate laterali, soltanto in parte addolcite dalle tre grandi tele di Corrado Giaquinto del 1743, che ne mitiga la fredda austerità dell’assenza decorativa.
Questa quarta e ultima tappa descrittiva del complesso basilicale di Santa Croce in Gerusalemme mi auguro possa aver fornito dettagli e portato all’attenzione di molti l’ennesimo gioiello tardo-antico e paleocristiano che Roma possiede ad imperitura memoria della sua storia.
* Paolo Lorizzo è laureato in Studi Orientali e specializzato in Egittologia presso l’Università degli Studi di Roma de ‘La Sapienza’. Esercita la professione di archeologo.