Come vivere il tempo d'Avvento in questo Anno della Fede? (Seconda parte)

Intervento di mons. Moraglia al Ritiro spirituale d’Avvento per i sacerdoti e i diaconi della Diocesi di Venezia

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ROMA, lunedì, 10 dicembre 2012 (ZENIT.org).- Riprendiamo la seconda parte dell’intervento del Patriarca monsignor Francesco Moraglia al Ritiro spirituale d’Avvento per i sacerdoti e i diaconi della Diocesi di Venezia, che si è svolto giovedì 6 dicembre a Mestre.

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Se la dissipazione, la superficialità e i legami impropri dovessero segnare la vita del vescovo, del presbitero, del diacono – mandati per essere segno di Gesù buon pastore e servitore in mezzo ai fratelli e alle sorelle – allora quella dissipazione, quella superficialità e quei legami impropri rivestirebbero un’odiosità molto più grande.

Quanto il Santo Curato d’Ars era solito dire – parlando del parroco – ha oggi per noi tutto il suo valore, particolarmente all’inizio di quest’Anno della Fede: “Un buon pastore, secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro che il buon Dio possa accordare a una parrocchia e un dono dei più preziosi della misericordia divina”.

Sì, noi – in quanto vescovi, presbiteri e diaconi – siamo il grande dono fatto dal cuore di Dio alla nostra gente, al di là di ogni nostro merito e consapevolezza. Non veniamo meno nel nostro essere dono alla comunità a cui siamo mandati. Interroghiamoci, su questo punto, alla fine di ogni nostra giornata. 

Così il vescovo, il prete e il diacono sono chiamati e mandati, secondo la loro specificità, per essere, per la loro gente, terreno “buono”: ossia non dissipati, non superficiali, non legati in modo improprio a persone o a beni materiali. Sì, terreno “buono” innanzitutto in ciò che ci identifica come vescovi, preti e diaconi in vista del ministero ecclesiale e capaci di compiere gli atti propri di Gesù-sposo-capo e di Gesù-servo.

Essi, allora, devono domandarsi all’inizio di quest’Anno della Fede – e particolarmente nel periodo d’Avvento – se riescono ad essere, col loro ministero, aiuti veri e reali per la fede delle loro comunità e dei singoli membri che le compongono. Sì, siamo chiamati ad essere cooperatori della loro gioia, ossia della loro fede.

Chiediamoci, quindi, se realmente aiutiamo, col nostro ministero, i fratelli a crescere nella vita di fede: la nostra predicazione nasce dalla preghiera? E il sacramento della penitenza è annunciato e celebrato in modo attento e disponibile nella nostra parrocchia?

I ministri ordinati, costituiti nei vari gradi dell’ordine, sono chiamati innanzitutto a essere cooperatori della grazia divina, ossia della misericordia e della tenerezza condiscendente di Dio verso le anime.

Sappiamo, infatti, che i ministri ordinati – nel bene e, Dio non voglia, nel male – non passano mai inosservati. Non sono mai irrilevanti per la gente di cui sono servitori. Essi, dinanzi ai singoli membri e all’intera comunità, sono – lo diciamo con un’immagine – posti sul candelabro, dove si dà la luce che rischiara e riscalda. 

Le persone che guardano a noi – perché siamo mandati a loro come vescovi, preti e diaconi – spesso per timidezza, ritrosia o complicatezza d’animo (bisogna, infatti, fare i conti anche con le varie scansioni dell’animo umano) attendono da noi anche ciò che espressamente non ci domandano. 

Dobbiamo avere grande rispetto e stima del dono del sacerdozio e del diaconato che sono in noi. Certo, l’apostolo Paolo ci ricorda che siamo  poveri e fragili vasi di creta: nessuno di noi dubita di questo ma il contenuto di tali cocci di creta è preziosissimo e ci è stato donato gratuitamente. A noi, quindi, spetta perpetuare con il dono di noi stessi – le promesse dell’ordinazione – un tale dono in spirito di vera gratuità.

Richiamo qui il relativo passo della seconda lettera ai Corinzi[1] perché, applicato al sacerdozio (di primo e secondo grado) e al diaconato, ci stimola ad andare incontro al Signore che, soprattutto in questo tempo d’Avvento, è Colui che incessantemente viene e al quale, come ministri ordinati, dobbiamo andar incontro non da soli, ma con le nostre comunità.

L’esempio è Maria che visita la cugina Elisabetta, recandosi da lei con passo spedito. Come ministri ordinati dobbiamo domandarci con quali buone opere andiamo verso la capanna di Betlemme. Un ministro ordinato che non percepisca più la grandezza del dono che egli è con la sua persona – proprio in quanto vescovo, sacerdote o diacono – per la sua comunità finisce, ben presto, per  trovarsi allo “stretto” nei panni del vescovo, del prete o del diacono, con tutto ciò che da questo deriva.

Il Natale ci interpella su questo punto: la risposta la dobbiamo dare di fronte al Signore e alle nostre comunità con sincerità e verità.

Negli anni dell’infanzia la solennità del santo Natale – con la novena così attesa, preceduta dalla festa dell’Immacolata, e con i piccoli ma così significativi fioretti – bussava alla porta del nostro cuore di bambini, capaci ancora di stupirsi, parlando col linguaggio eloquente della semplicità, della gioia e della bellezza.

Tutto questo ci rinnovava a partire esattamente dalla realtà concreta di una fede vissuta, in cui c’era vera devozione e anche vero desiderio di conversione nella riscoperta del Dio bambino.

Poi, con i suoi testi e le sue musiche, la liturgia – che è il linguaggio più significativo che la Chiesa possiede – faceva il resto parlando al nostro cuore di bambini e, attraverso di noi, ai nostri genitori e viceversa. Ecco la pastorale familiare in atto.

Così, di anno in anno, attraverso una semplice ma reale esperienza di Chiesa – il metodo “catecumenale” allora non era teorizzato ma era prassi concreta – eravamo così condotti, al di là di noi stessi, verso il mistero del Signore Gesù attraverso una fede condivisa anche in famiglia. Oggi è questa la grande sfida: la pastorale familiare deve diventare pastorale ordinaria.

L’incanto del presepio era, poi, un richiamo potente al realismo dell’incarnazione e così – in modo semplice, familiare e parrocchiale – tutti insieme si “imparava” Gesù Cristo.

Noi, oggi, sentiamo il desiderio di offrire ai nostri bambini e, in modo differente, agli adulti la realtà e la gioia di una fede che torni a dare il sapore della bellezza di Dio e a ringiovanire ogni realtà, incominciando dal cuore del pastore e dei fedeli, piccoli e grandi. Così siamo grati ai bambini e alla loro fede che la Chiesa – attraverso i parroci, le catechiste e, dove è possibile, i genitori e i nonni – ha la gioia di custodire e portare a maturazione.

Degli anni della nostra fanciullezza, trascorsi in parrocchia e in patronato, quante cose sono rimaste scritte, in modo indelebile, nei nostri cuori! Nei nostri cuori, ma anche nei cuori di tanti nostri coetanei che, poi, hanno intrapreso strade diverse dalle nostre. Per esempio, quanto  dobbiamo al nostro antico parroco o cappellano, alle nostre catechiste e alla pastorale ordinaria della nostra antica parrocchia di provenienza: catechismo, prima confessione e prima comunione, confermazione, gruppo dei chierichetti, gruppo dei cantori, Grest, campi estivi ecc.

Di fronte al Signore nulla della fatica di un prete e di un diacono – che si spendono generosamente nel loro ministero dove sono mandati dal vescovo – va perso. Sono certo che, in Paradiso, molti sacerdoti e diaconi avranno tante gradite sorprese e vedranno una fecondità inaspettata del loro ministero.

Sorprese che ne sveleranno l’efficacia anche quando essi lo ritenevano ministero inutile, privo di risultati e quasi una perdita di tempo. San Paolo ci insegna che quando si avverte la propria impotenza, la fatica del non riuscire, la pochezza delle nostre risorse, ebbene proprio allora la grazia del Signore lavora e cambia il cuore delle persone, anche se ciò a noi rimane nascosto. “Quando sono debole – scrive l’Apostolo – è allora che sono forte” (cfr. 2 Cor 12,10).

Il teologo luterano tedesco, Dietrich Bonhoeffer, all’interno de
lla sua visione teologica, così s’esprime: “Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza, della sua sofferenza! Qui sta la differenza decisiva rispetto a qualsiasi religione. La religiosità umana rinvia l’uomo nella sua tribolazione alla potenza di Dio nel mondo, Dio è il Deus ex machina. La Bibbia rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio; solo il Dio sofferente può aiutare”.

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NOTE

[1] La seconda lettera ai Corinzi così s’esprime: “Noi … abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi. In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. Cosicché in noi agisce la morte, in voi la vita” (2 Cor 4, 7-12).             

[La prima parte è stata pubblicata domenica 9 dicembre]                                  

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ZENIT Staff

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