Come spalancare la porta al futuro?

Saluto del Rettore della Lateranense al Convegno della Facoltà di Filosofia

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ROMA, lunedì, 10 dicembre 2012 (ZENIT.org).- Riportiamo il saluto del Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense, monsignor Enrico dal Covolo, al Convegno della Facoltà di Filosofia, che si svolge oggi presso l’ateneo romano.

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Signor Decano,
Autorità accademiche, civili e religiose,
Professori e Studenti. 

Incastonata nella cornice feconda dell’Anno della fede, indetto dal Santo Padre Benedetto XVI, e in continuità di intenti con la partecipata esperienza di studio su L’avventura educativa. Antropologia, Pedagogia, Scienze dello scorso 5 dicembre 2011, la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense torna oggi a offrire il suo contributo di ricerca sull’emergenza educativa, formativa e comunicativa, raccogliendone la sfida con l’elaborazione di efficaci strategie di soluzione. La presenza di numerose e diverse discipline – fenomenologia, neuroscienze, pedagogia, scienze della comunicazione – non contraddice il comune obiettivo dell’unità del sapere. Piuttosto, ne testimonia la condivisione.

Se la filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero, la riflessione odierna sul significato del trinomio Intersoggettività, Comunicazione, Educazione rientra a pieno titolo nella disamina razionale di questo tempo, che è il nostro: un presente complesso, gravato da numerosi conflitti e segnato da legami sempre più labili. Come contribuire alla costruzione di un nuovo umanesimo, incentrato sulle categorie evangeliche dell’amore e dell’essere-per-l’altro? Come incarnare in modo autentico la fondamentale figura del testimone? Come spalancare la porta al futuro?

E’ difficile negarlo: la società multiculturale registra una crisi “liquida”, con tensioni e incertezze che accentuano più la dispersione nel frammento che l’unità solida e solidale. D’altra parte, il discusso fenomeno della globalizzazione elimina le differenze, postulate dalla irripetibile identità personale, in un’operazione omologante e disumanizzante che destabilizza, confonde e produce ogni sorta di inquietudine, non essendo poi così lontana da quel sonno della ragione, che genera i mostri gemelli della solitudine e dell’alienazione.

Ma non è tanto la complessità del tempo presente che ci preoccupa, quanto un presente che non sia carico di futuro.

Abitiamo e custodiamo una Weltanschauung nella quale la pur fragile consistenza del singolo può cercare e trovare nei valori della testimonianza, della relazione, del dialogo, nella formazione personalistica al servizio della verità, l’auspicata opportunità di riscoprire le proprie radici, la propria origine, la propria identità. Perché trovando le proprie radici, si trova anche il proprio futuro.

Proprio questo dobbiamo insegnare ai nostri giovani. Questo dobbiamo comunicare loro, con la forza della testimonianza, in prima persona.

Un siffatto ri-conoscimento ha molto a che fare con la possibilità di risemantizzare l’umano ex-per-iri e di promuovere la cultura della qualità e la nuova evangelizzazione nelle istituzioni accademiche, con rinnovate strategie comunicative e formative aperte alla conversione dello sguardo, oltre che del cuore. Riflettere sulla comunicazione nel tempo dell’emergenza educativa significa infatti liberarla dalle secche di un orizzonte appiattito sull’immobile presente di quest’epoca cross-mediale. Il nostro comunicare educativo sarà allora formativo e performativo, come chiede a gran voce il papa Benedetto XVI: «Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente. Così possiamo ora dire: il cristianesimo non era soltanto una “buona notizia” – una comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti. Nel nostro linguaggio si direbbe: il messaggio cristiano non era solo “informativo”, ma “performativo”. Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti, e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata»[1].

Educare significa fare la verità. Significa che è impossibile separare pensiero e azione, logica e testimonianza, verità e carità, educazione e trascendenza. Significa cogliere l’identità personale e relazionale in un’antropo-logia non disgiunta da una teo-logia: come ha scritto Edith Stein, santa Teresa Benedetta della Croce, «il primo e vero formatore dell’uomo non è l’uomo, ma Dio»[2].

L’educatore è così dono autentico di sé e autentico testimone della fede.

Nella sua prima, fondamentale enciclica Deus caritas est,Benedetto XVI ha parlato della reciproca interdipendenza dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo, dell’eros e dell’agape: l’amore tra le persone è «esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio»[3].

Nell’impegnativa opera di edificazione della civiltà dell’amore, quale solida risposta all’emergenza educativa, la peculiarità cristiana è proprio questa: essere presidio coerente e responsabile di un autentico umanesimo.

Il che vuol dire testimoniare, promuovere e consolidare la radicale novità evangelica dell’essere-per-l’altro.

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NOTE

[1] Benedetto XVI, Lettera enciclica Spe salvi, n. 2.

[2] E. Stein, La donna. Il suo compito secondo la natura e la grazia, tr. it. di O. M. Nobile Ventura, Città Nuova, Roma 1985, 3ª ed., p. 125.

[3] Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est, n. 6.

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ZENIT Staff

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