Per cambiare la vita e non solo qualcosa

Lectio Divina di monsignor Francesco Follo per la I Domenica di Quaresima

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Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi ai lettori di Zenit questa riflessione sulle letture liturgiche della prima domenica di Quaresima. Il presule propone anche una lettura patristica. 

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LECTIO DIVINA 

Per cambiare la vita e non solo qualcosa

I Domenica di Quaresima – Anno C – 17 febbraio 2013

Rito Romano

Dt 26,4-10; Sal 90; Rm 10,8-13; Lc 4,1-13 

Rito Ambrosiano

Gl 2,12b-18; Sal 50; 1Cor 9,24-27; Mt 4,1-11

1) La Quaresima: perché?

In questa prima domenica di Quaresima, il Vangelo ci porta nel deserto con Gesù, luogo dell’incontro e dell’intimità con Dio, ma anche luogo della lotta suprema con il tentatore. Lo scopo di questi 40 giorni è: la Chiesa sull’esempio di Gesù Cristo il quale si ritirò nel deserto per digiunare 40 giorni, ci fa vivere lo stesso periodo di tempo,  al fine di prepararci “a celebrare l’evento della Croce e della Risurrezione, nel quale l’Amore di Dio ha redento il mondo e illuminato la storia” (Benedetto XVI, Messaggio per la Quaresima 2013).

Lo scopo della Quaresima non è per la mortificazione, è per l’incontro con il Cristo a Pasqua. Certo in questo cammino verso il Crocifisso Risorto è necessaria la purificazione degli occhi, del cuore e della mente, per guardare, amare e capire se stessi e gli altri come fa Dio. In questo esodo verso la “terra” di Dio è necessaria la preghiera, “che è l’effusione del nostro cuore in quello di Dio” (P. Pio da Pietrelcina), “E’ necessario che noi preghiamo, perché la preghiera ci da’ un cuore puro ed un cuore puro sa amare” (M. Teresa di Calcutta) e un cuore puro ha occhi puri per vedere Dio.

Se è utile conoscere il fine del numero 40 legato ai giorni, è utile conoscerne anche l’origine, che non è nel Vangelo, essa si trova già nell’Antico Testamento.

Nel libro della Genesi leggiamo che, a causa del diluvio, l’uomo giusto Noè trascorse quaranta giorni e quaranta notti nell’arca, insieme alla sua famiglia e agli animali che Dio gli aveva detto di portare con sé. E attese altri quaranta giorni, dopo il diluvio, prima di toccare la terraferma, salvata dalla distruzione (cfr Gen 7,4.12; 8,6).

Il libro dell’Esodo ci racconta di Mosè che restò quaranta giorni e quaranta notti sul monte Sinai alla presenza del Signore e ricevette la Legge. In tutto questo tempo digiunò (cfr Es 24,18). Anche il Deuteronomio ci ricorda che il cammino del popolo ebraico dall’Egitto alla Terra promessa durò quarant’anni e fu un tempo privilegiato in cui il popolo eletto sperimentò la fedeltà di Dio. «Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni… Il tuo mantello non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni», disse Mosè al termine di questi quarant’anni di deserto (Dt 8,2.4).

Quaranta furono gli anni di pace di cui godette Israele sotto i Giudici (cfr Gdc 3,11.30). Purtroppo, passato questo tempo, prevalse la mancanza della memoria dei benefici di Dio e la mancata osservanza della Legge.

Quaranta furono i giorni necessari al profeta Elia per raggiungere il monte Oreb, sul quale incontrò Dio (cfr 1 Re 19,8). Quaranta furono i giorni richiesti Giona ai cittadini di Ninive perché facessero penitenza, ed ottennero il perdono di Dio (cfr Gn 3,4). Quaranta sono anche gli anni dei regni di Saul (cfr At 13,21), di Davide (cfr 2 Sam 5,4-5) e di Salomone (cfr 1 Re 11,41), i tre primi re d’Israele.

Infine, nel Nuovo Testamento leggiamo che quaranta giorni dopo la sua nascita Gesù fu portato al Tempio e Simone al tramonto della sua vita poté incontrare il Figlio di Dio, all’aurora della sua vita tra gli uomini. E quaranta furono i giorni che senza mangiare Gesù passò nel deserto, dove era andato sotto la guida dello Spirito (Lc 4, 1-13). Gesù nella preghiera  si nutrì della Parola di Dio, usandola come arma per vincere il diavolo. Dopo questi quaranta giorni il Redentore cominciò la sua vita pubblica. E ancora quaranta furono i giorni durante i quali Gesù risorto istruì i suoi, prima di “concludere” la sua umana avventura e salire al Cielo e inviare lo Spirito Santo (cfr At 1,3) per continuarla con noi e in noi.

Quaranta, dunque, è il numero simbolico con cui la Sacra Scrittura rappresenta i momenti salienti dell’esperienza della fede del Popolo di Dio. Questo numero non rappresenta tanto un tempo cronologico, scandito dalla somma dei giorni, quanto piuttosto un periodo sufficiente per vedere le opere di Dio, un tempo entro cui occorre decidersi ad assumere le proprie responsabilità senza ulteriori rimandi.

2) Un tempo provvidenziale.

Oltre alla preghiera, per vivere questo tempo quaresimale quale tempo propizio e provvidenziale la Chiesa dà come indicazione anche il digiuno e la carità.

Per spiegare brevemente il digiuno userai le parole mortificazione e sacrificio nel loro significato del linguaggio corrente. In tal senso esse significano una temperanza nell’impeto, nell’istinto, una temperanza nell’uso dell’istinto. “Temperare”, in latino, vuol dire governare secondo lo scopo, allo scopo, perciò, di mantenere nell’ordine. Potremmo allora tradurre l’invito al sacrificio, l’invito alla mortificazione e al digiuno, come fedeltà a ciò “più significativo” nella cosa. C’è, infatti, un significato immediato della cosa: uno ha fame, si avventa sul cibo; uno prova affezione, e “usa” l’altra persone per il suo istinto. C’è l’amore di completezza, il desiderio di essere riconosciuti che se non è “temperato” diventa vanagloria, orgoglio, sete di possesso. C’è un’ ingordigia nell’istinto, una non-temperanza nell’istinto. La Chiesa ci invita al “digiuno” perché, nella temperanza, il cibo sia vissuto come mezzo per il cammino, e perché ci rapportiamo con le persone come compagni nello stesso pellegrinaggio della vita, guardandole come icone di Dio.

Libertà dal risultato, per cui uno finalmente è capace di voler bene all’altro, libero dalla risposta dell’altro, dal modo di corrispondenza dell’altro: è veramente la libertà, è veramente l’amare e basta, l’amore finalmente senza la menzogna. E, in secondo luogo, la libertà da se stessi, cioè dal gusto.

3) Elemosina uguale a carità?

Se si volesse essere rigorosi la risposta è: no. L’elemosina non è sinonimo di carità, è un’opera di carità. Ma c’è del vero in questa equipollenza popolare perché elemosina (che viene dal greco e vuole dire avere pietà, come Dio l’ha nei nostri confronti sempre e in particolare quando preghiamo: “Signore, pietà” Kyrie eleison) è un gesto di carità, di compassione verso il povero.

Tuttavia non bisogna ridurre la “carità” alla solidarietà o al semplice aiuto umanitario. Un missionario comboniano (P. Tiboni, 88 anni), che ha speso la sua vita in Uganda diceva spesso: “La più grande carità che noi possiamo avere verso gli africani è di annunciare loro che Cristo è risorto”. Non c’è gesto più caritatevole verso il prossimo che “spezzare il pane della Parola di Dio, renderlo partecipe della Buona Notizia del Vangelo, introdurlo nel rapporto con Dio: l’evangelizzazione è la più alta e integrale promozione della persona umana” (Benedetto XVI, Messaggio per la Quaresima 2013).

Fare l’elemosina vuol dire il vivere la riparazione del peccato altrui, sentirci solidali con il mondo per riparare. Si tratta anche di metter mano alla tasca, ma non crediamo di risolvere tutto con l’elemosina, con la carità spicciola, perché questa è una carità ma
non è la Carità. La Carità vera è dare Dio alle anime. Non è cambiare alcune cose, è cambiare la vita vissuta in sacrificio di comunione.

Sant’Agostino nel capitolo undicesimo del De civitate Dei dice che l’unico sacrificio è la comunione. L’unico sacrificio è il passaggio alla comunione, arrivare a dire: “il mio io sei tu”. L’unico sacrificio, perciò, è l’amore. È la grande rivoluzione portata nella storia del mondo prima dai profeti e poi da Gesù. Il suo amore rende possibili tutti i sacrifici per affermare l’altro, anche il sacrificio della vita. Per questo la Chiesa identifica i vergini e i martiri con la forma più alta di amore, perché verginità e martirio sono la testimonianza che la gioia più grande della vita è affermare l’altro, affermare che il tutto è l’altro nell’“elemosina”. 

Questa parola deriva dal greco eleèo (=ho compassione), da cui attraverso l’aggettivo eléemon (=compassionevole) passò al latino (cristiano) eleemosyna e da lì alle altre lingue (per es.: francese aumône, spagnolo limosna, catalano almoina) e non (inglese alms, tedesco Almosen). Dunque “fare l’elemosina” nel senso etimologico e cristiano del termine vuol dire donare compassione, misericordia condividendo non solo il pane materiale ma il Pane Vitale: Cristo Gesù.

Commentando la parabola delle vergini prudenti San Giovanni Crisostomo esorta tutti, lui compreso: “Laviamo nell’elemosina la nostra anima” e rivolgendosi alle vergini continua “Il fuoco della verginità  si spegne se non si versa su di esso l’olio dell’elemosina e questo olio è in vendita presso i poveri” (San Giovanni Crisostomo, Omelia III, 2-3).

Le Vergini Consacrate sono quelle vergini prudenti di cui parla il vangelo, perché tutta la vita è spesa per donarsi a Dio e servire il prossimo, nella compassione. Esse non solo fanno l’elemosina, con la loro consacrazione “sono” l’elemosina di Dio al mondo.

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LETTURA PATRISTICA

SANT’AGOSTINO D’IPPONA

DISCORSO 209 – QUARESIMA

http://www.augustinus.it/italiano/discorsi/discorso_265_testo.htm

È tempo di eliminare le inimicizie.

1. È arrivato il tempo sacro nel quale mi sento in dovere di esortare caldamente la vostra Carità a pensare più diligentemente all’anima e a contenere gli stimoli del corpo. Questi quaranta giorni sono i più sacri sopra tutta la terra, e il mondo intero, che Dio ha riconciliato a sé in Cristo 1, approssimandosi la Pasqua, li celebra solennemente con una pietà encomiabile.

Se ci sono delle inimicizie che non dovevano sorgere o che dovevano estinguersi subito, ma che tuttavia han potuto perdurare tra fratelli fino ad ora sia per negligenza sia per ostinazione sia per una specie di vergogna non umile ma superba, almeno ora abbiano termine. Sopra di esse il sole non avrebbe dovuto tramontare 2; almeno ora, dopo tante levate e tramonti di sole, si estinguano anch’esse finalmente col loro tramonto e non si rinnovino mai più con la loro levata.

Chi è negligente si dimentica di estinguere le inimicizie, chi è ostinato non vuol concedere il perdono quando viene pregato di farlo, chi si vergogna per superbia si rifiuta di chiedere perdono. Le inimicizie vivono di questi tre vizi e recano la morte a quelle anime nelle quali non vengono fatte morire. Vigili contro la negligenza la memoria, contro l’ostinazione la misericordia, contro la superba vergogna una prudenza umile.

Chi si ricorda di essere negligente nel cercare la concordia scuota il suo torpore ridestandosi; chi pretende di rivendicare i suoi diritti da chi è in debito con lui pensi bene che anch’egli è in debito con Dio; chi si vergogna di chiedere al fratello di perdonarlo vinca con un salutare timore la sua perversa vergogna: affinché, terminate e uccise queste dannose inimicizie, voi possiate vivere. Tutto questo lo compie la carità che non si vanta 3. Riguardo alla carità, fratelli miei, per quanta è già in noi la si eserciti vivendo bene, per quanta ne manca la si ottenga chiedendola.

Sostenere la preghiera con l’elemosina.

2. Dobbiamo sostenere le nostre preghiere con adeguati aiuti. E poiché in questi giorni dobbiamo pregare con più fervore, cerchiamo anche di erogare elemosine con più fervore. Aggiungiamo ad esse quanto risparmiamo digiunando e astenendoci dai soliti cibi. Tuttavia deve fare maggiori elemosine soprattutto chi per qualche esigenza del proprio corpo e per assuefazione ad alcuni alimenti non può astenersene e quindi non può aggiungere all’elemosina che dà al povero quanto nega a se stesso. Proprio perché non può mortificarsi il buon fedele deve dare di più al povero; cosicché, avendo minore possibilità di sostenere con i sacrifici del corpo le sue preghiere, introduca una elemosina più abbondante nel cuore del povero affinché essa possa intercedere per lui. È, questo, un salutarissimo consiglio che ci viene dalle sacre Scritture e che dobbiamo ascoltare: Chiudi l’elemosina nel cuore del povero ed essa pregherà per te 4.

Come mortificarsi.

3. Esortiamo inoltre coloro che si astengono dalle carni a non evitare i recipienti in cui sono state cotte come fossero immondi. L’Apostolo infatti dice: tutto è puro per i puri 5.Secondo la sana dottrina infatti quanto si compie in questa osservanza quaresimale non lo si compie per evitare una impurità legale ma per tenere a freno le passioni. Per cui sbagliano di molto anche coloro i quali si astengono dalle carni però vanno in cerca di altri alimenti che richiedono una preparazione raffinata o che costano di più. Agire così non significa fare astinenza ma trovar varianti alla voluttà.

Come potremo dire a costoro di dare ai poveri quanto sottraggono a se stessi se si privano del cibo abituale ma aumentano la spesa per comprarsene un altro più costoso? In questi giorni dunque digiunate con più frequenza, spendete di meno per voi e date con più larghezza ai bisognosi. Questi giorni richiedono una certa continenza anche riguardo ai rapporti coniugali: Per un tempo determinato – dice l’Apostolo – per attendere alla preghiera; poi ritornate di nuovo insieme, perché satana non vi tenti a causa della vostra incontinenza 6.

Non sarà arduo e difficile per gli sposati far questo per pochi giorni, se si pensa che le vedove consacrate si sono impegnate a farlo da un certo momento della loro vita fino alla fine e che le vergini consacrate lo fanno per tutta la vita. E in tutte queste cose siate fervorosi nella pietà evitando però l’orgoglio. Nessuno si compiaccia di essere generoso così da perdere l’umiltà. Tutti gli altri doni di Dio non giovano a nulla se manca il vincolo della carità.

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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