Una bambina di 3 anni che cammina con la madre nei corridoi di un carcere con le braccia dietro la schiena. Due occhi nella penombra della grata a cui un detenuto si aggrappa con rassegnazione. Un uomo che vaga senza meta con una valigetta di cartone. Dall’altra parte: i deserti sconfinati dell’Africa, minuscoli borghi arroccati ai margini del mondo, paesaggi e volti “umili” di uomini e donne provenienti dall’India e dall’Ecuador.
Fotografie antitetiche tra loro, che nel contrasto tra il colore e il bianco e nero mostrano i grandi spazi e le grandi ristrettezze in cui può vivere un essere umano. Tutte, però, urlano un solo messaggio: Uhuru!
Proprio la parola swahili che significa “Libertà” è il titolo del doppio libro fotografico che raccoglie gli scatti rubati dall’architetto Francesco Delogu nei suoi numerosi viaggi e quelli che il fotografo Stefano Montesi ha realizzato durante l’esperienza professionale dentro il carcere.
Il libro è il primo passo della campagna di sensibilizzazione Cittadini poveri che sono in carcere: gli unici per i quali funziona la certezza della pena! promossa dalla Caritas diocesana di Roma che ha come protagonisti i detenuti più indigenti.
L’incasso del volume, infatti – in vendita da oggi nelle librerie Arion – sarà devoluto ai “poveri” delle carceri per comprare loro beni di prima necessità come cibo, dentifricio, shampoo, indumenti intimi, di cui sono totalmente privi, nonostante la Costituzione teoricamente garantisca tali diritti.
Non è questo, però, l’unico obiettivo dell’iniziativa Caritas. Nell’intento di “restituire la dignità” a chi in carcere l’ha persa nel corpo e nell’anima, l’associazione diocesana vuole aprire gli occhi della società sulla situazione detentiva in Roma e in tutta Italia.
Di questo hanno discusso, infatti, i relatori intervenuti, oggi alla Radio Vaticana, alla conferenza di presentazione del libro: mons. Enrico Feroci, direttore della Caritas di Roma; Anna Chiara Valle, di Famiglia Cristiana; Daniela De Robert, dei volontari Caritas nelle carceri e soprattutto Don Sandro Spriano, responsabile Area Carcere Caritas.
In particolare, l’attenzione si è soffermata sul polo penitenziario romano di Rebibbia, protagonista di vari scatti del libro, corredati anche dagli scritti personali di alcuni dei suoi detenuti che, ha ricordato don Spriano, “sono attualmente 1800, nonostante il Nuovo Complesso dovrebbe ospitarne solo 1100”.
Il sovraffollamento non è, però, l’unico problema che affligge le carceri della Capitale. C’è la “povertà” appunto, non solo materiale, ma anche “culturale e relazionale”, ancora più grave perché azzera ogni contatto col mondo esterno e ogni speranza.
Sarà forse per questo che l’ultimo 12 dicembre sono stati registrati circa 58 suicidi in istituti penitenziari, non solo da parte di detenuti, tra l’altro, ma anche di poliziotti penitenziari. Al di la del chiavistello, infatti, si respira comunque lo stesso ambiente di privazioni e di orrori.
Raccontando la sua esperienza decennale a Rebibbia, don Sandro Spriano ha parlato di una “gabbia” dove al detenuto viene reso difficile vestirsi visto che “tra gli effetti dati dal carcere non c’è neanche uno slip all’anno” e dove lavarsi è un trauma per “l’acqua gelida d’inverno e calda d’estate”. Il carcere “passa solo il cibo e il posto letto quando c’è” ha dichiarato il cappellano; per il resto non è possibile “telefonare a casa, avere una ‘privacy per la propria anima’, vivere correttamente un’affettività e una sessualità”.
Si aggiunge la povertà materiale: “Su 1800 detenuti del Nuovo Complesso solo mille dispongono di un conto corrente sul quale i familiari possono depositare soldi e dal quale si può attingere fino a 800 euro al mese. I detenuti che arrivano a tanto sono un centinaio, la maggioranza preleva piccole cifre l’anno. Ci sono, quindi, più di 800 detenuti che non hanno nulla”.
“Tutti i diritti previsti dalla Costituzione sono eliminati non si sa in base a quale legge” è la dura denuncia del sacerdote, “abbiamo intenzione di condannare a morte queste persone privandoli dell’intelligenza e della libertà. Poi, però, si pretende che escano fuori e siano degli angioletti. Tali condizioni di vita non fanno altro che aumentare la rabbia e la frustrazione”.
C’è un altro aspetto, ancora più triste: quell’opinione pubblica per cui, parlando delle sofferenze di un uomo in carcere si pensa “se l’è meritato”. Anna Chiara Valle lo ha sottolineato nel corso della conferenza, facendo anche un paragone con il caso Green Hill: “Per il maltrattamento dei cani siamo pronti a scendere in campo – ha detto – ma non per le persone carcerate perché è pensiero comune che sia giusto così”. Riecheggiano le parole di don Riboldi: “Pane e acqua appartengono alla punizione, ma pane e acqua vanno dati in un piatto pulito”.
Obiettivo principale della campagna Caritas diventa dunque “responsabilizzare” la società, affinché – ha affermato mons. Feroci – “prenda coscienza di trovarsi davanti ad una problematica enorme che la interessa direttamente”.
“Quello che chiediamo – ha aggiunto Daniela De Robert – non sono più posti in carcere, ma misure alternative come una giustizia e una società che insegni alle persone a vivere, a lavorare, a stare con gli altri”.
Forse è troppo tardi inculcare nella società attuale questa nuova mentalità; bisogna puntare quindi sulle nuove generazioni. Per questo, ha spiegato la De Robert, l’associazione dei Volontari Caritas sta portando avanti un grande lavoro nelle scuole. “Entriamo e molti ragazzi richiedono la pena di morte – ha raccontato – ma dopo i nostri dialoghi o dopo attività come spostare i banchi in modo da formare una cella che dimostra come si può isolare una persona, li lasciamo con qualche dubbio”.
“Bisogna seminare dentro e fuori – ha concluso – anche perché è inutile aprire le porte del carcere, se poi quelle della società rimangono blindate”.