di Robert Cheaib
ROMA, mercoledì, 12 dicembre 2012 (ZENIT.org).- Con il Concilio Vaticano II, la riflessione teologica cattolica sulla rivelazione ha segnato un passaggio importante da un modello istruttivo-dogmatico a un modello comunicativo-relazionale, da un modello proposizionale a un modello inter-personale. Questo passaggio è evidenziato nella terminologia scelta dalla Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione, Dei Verbum, la quale mostra che il contenuto della rivelazione è Dio stesso. Nella rivelazione Dio non si limita a manifestare i decreti eterni della sua volontàm , ma comunica se stesso «Deus Seipsum […] manifestare ac communicare voluit» (DV 6).
È vero che questa concezione non è una novità assoluta sullo scenario teologico. Circa 100 anni prima, la Costituzione Dei Filius del Concilio Vaticano I accennava tale autocomunicazione di Dio nella rivelazione con parole simili: «piacque alla Sua bontà e alla Sua sapienza rivelare se stesso e i decreti della Sua volontà» (Dei Filius, cap. II). Ma è vero anche che questa comprensione della rivelazione come auto-comunicazione non ha avuto una felice Wirkungsgeschichte (storia degli effetti) nella manualistica della prima parte del XX secolo. Ed è stata la ricezione della Dei Verbum a permettere questa svolta copernicana che non è altro che un ritorno all’essenza biblica della rivelazione di Dio che si è detto e si è donato nella storia sacra dei profeti e pienamente nel Figlio (cf. Eb 1,1; cf. anche Gv 3,16).
Il nuovo saggio di Giovanni Mazzillo – Dio sulle tracce dell’uomo. Saggio di teologia della rivelazione, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2012 – prende sul serio questa categoria auto comunicativa di Dio e coniuga la riflessione sulla rivelazione divina nella chiave della categoria di «relazione», in dialogo con i migliori esponenti della contemporanea filosofia del dialogo.
Avendo già parlato nel saggio precedente – L’uomo sulle tracce di Dio. Corso di introduzione allo studio delle religioni – della ricerca dell’uomo come esperienza religiosa, l’autore si propone nell’opera attuale di considerare la parte di Dio in quest’avventura.
È chiaro per Mazzillo che l’iniziativa di Dio non è successiva a quella dell’uomo e neppure condizionata da essa. Già il semplice fatto che l’uomo possa mettersi alla ricerca delle orme di Dio è un dono dall’alto. Il passo di Dio verso l’uomo è il primo passo e la rivelazione di Dio è «l’immeritato, gratuito e sorprendente mettersi in cammino dell’amore di Dio, per poterci incontrare e salvare».
Mettendo al centro dell’ermeneutica teologica della rivelazione l’esperienza e il concetto della relazione, il saggio incarna in un’articolata teologia della rivelazione l’accento particolare evidenziato dalla Dei Verbum, nella quale – come si è visto – si ribadisce che la rivelazione è l’autocomunicazione e la manifestazione di Dio che è amore. Così facendo il saggio focalizza l’attenzione su quanto costituisce il cuore della rivelazione (Dio stesso) e l’intenzionalità del gesto rivelativo di Dio (l’amore di Dio/l’amore che è Dio): «La rivelazione è l’autocomunicazione di Dio come amore che si dona e che resta in cammino».
Nella prima parte del saggio, cogliendo la valenza relazionale della rivelazione e la carica rivelativa della relazione – «se non c’è rivelazione senza relazione, non c’è nemmeno relazione che non sia anche contemporaneamente una certa forma di rivelazione» –, l’autore si dedica a una dotta ermeneutica della relazione umana considerata quale «parabola ed espressione di quella che Dio stabilisce con l’uomo», e pertanto quale fecondo avvio alla comprensione della fenomenologia della rivelazione divina. L’autore dialoga pertanto con le istanze della filosofia della relazione (Buber, Levinas, etc.) e con l’autocoscienza umana per tirare fuori le categorie dell’incontro e della relazione che possono aprirci all’analogia dell’autocomunicazione divina.
Nella seconda parte del saggio, intitolata Dio si rivela come amore, l’autore approfondisce la natura, l’oggetto e il metodo della rivelazione intesa come «autocomunicazione dell’amore». L’autore manifesta come nello svuotamento di sé nella rivelazione, Dio mostra «l’amore come senso dell’essere» e manifesta come il dono dell’amore non esaurisce l’essere del Donatore ma lo rivela e afferma giacché «Colui che è (cfr. Es 3,14) non solo è, ma è Amore, perché è Relazione e in Cristo ridiscende a ritroso la scala dell’essere fino a rinunciarvi volontariamente, svuotando se stesso e consegnandosi alla morte, il che significa propriamente la fine dell’essere. È quella fine che è però il compimento dell’amore e come amore risorge ed è e resta per sempre».
Il cammino della rivelazione si configura quindi non solo come rivelazione di Dio e neppure solo come rivelazione sull’uomo, ma anche come luce sull’essere che, per essere altrimenti, deve, spingendosi al di là di se stesso, essere inscindibilmente collegato alla relazione e al dono d’amore.
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