Tutto sembra calmo a Jonieh, l’epicentro dei maroniti della regione di Beirut, celebre per il vicino santuario mariano di Harissa e la sede del patriarcato. Durante il conflitto tra cristiani e musulmani degli anni Ottanta, la grande statua posta sulla cima di una ridente collina, fece miracolosamente da scudo ai colpi dell’artiglieria.
A distanza di alcuni anni dimentiche di un passato conflittuale, anche le donne musulmane velate sono tra le più assidue frequentatrici di Harissa, in ricerca di grazie, specie quella della gravidanza, per la quale riconoscono in Maria una potente mediatrice.
Mentre i razzi dal sud del paese si schiantano sull’altopiano del Golan, non è raro assistere a una coppia di giovani poco più che ventenni che convola a nozze. Sembra che l’incremento dei cristiani in Libano sia più significativo di quello dei musulmani.
Oggi infatti le violenze si perpetrano tra gli stessi musulmani: la fazione sciita sostenuta dall’Iran e madre di Hezbollah e la fazione sunnita sostenuta dall’Arabia Saudita e figlia del neocaliffato irakeno.
Una grande opera sociale ha promosso da decenni il patriarcato maronita libanese offrendo case popolari a giovani sposi e famiglie cristiane numerose. Mentre dall’Irak e dalla Siria continua la diaspora dei cristiani perseguitati, in Libano c’è una certa sedentarizzazione e l’accoglienza dei neo rifugiati.
L’aliquota degli immigrati rimane tuttavia alta, ma non è dovuta più alle contingenze di passate persecuzioni. I discendenti dei Fenici hanno il commercio e gli scambi nel sangue e si sentono spinti ad approdare verso altre terre invitati dall’evocativo Mediterraneo.
Il sistema familiare rimane ancorato sulla visione patriarcale e si esprime dal rito della consegna della sposa alla famiglia dello sposo. E’ un contratto che si allarga dai due individui alle due famiglie rispettive attraverso un protocollo che le nobilita entrambe. Il papà della sposa dirà al neo consuocero: “Sei una persona così per bene che se anche non avessi figlie femmine ne offrirei egualmente una a tuo figlio”.
Da questi gesti e da queste espressioni si sviluppano in realtà alleanze e solidarietà più profonde tra le famiglie. I libanesi hanno sperimentato tale coesione come elemento di forza nelle loro migrazioni verso paesi lontani. America Latina e Africa, ma anche Europa, Stati Uniti ed Australia, hanno accolto generazioni e generazioni di libanesi della diaspora assistiti oggi da propri vescovi e cappellani dove la loro consistenza è più numerosa.
Durante il rito del matrimonio una corona è posta sul capo degli sposi mentre si scambiano gli anelli. E’ il richiamo alla vocazione del popolo di Dio che partecipa alla regalità di Cristo attraverso il sacramento che è il segno della sua alleanza con la Chiesa, in vista delle nozze dell’Agnello. Una forte coesione familiare, una forte capacità di convivialità, rende i libanesi capaci di esorcizzare attentati e bombe attraverso la propensione al canto, alla danza e alla festa.
“Lo stare bene insieme come fratelli” del salmo 132 viene toccato con mano nel Paese dei Cedri dove tra ferite del passato e speranze per il futuro, si cerca di cauterizzare i cantieri aperti dei sogni.
Il messaggio che il Libano offre al martoriato Medio Oriente rimane attuale. Lo disse San Giovanni Paiolo II e lo ribadì Benedetto XVI che proprio qui compì il suo ultimo viaggio apostolico. E’ il messaggio della possibile convivenza interreligiosa di un popolo dalla cultura arabo – fenicia, che ha accolto il cristianesimo così come lo straniero è accolto nelle amene case di montagna tra oliveti e prugneti: rispetto e dignità.
Mentre dai fiumi sotterranei di Jeita scorre vigorosa e placida la stessa acqua del battesimo di figure come Charbel Makhlouf, Rafka Choboq, Nimatullah Kassab, Stefano Néhmé, Jacob Haddad, dal sangue placido e vigoroso dei martiri del Medio Oriente, altri Cedri della fedeltà all’amore di Cristo nasceranno.