È di pochi giorni fa la notizia del fatto, avvenuto in Francia, che ha visto Xavier Dor, medico di 84 anni, accusato di abortofobia. A presentare denuncia la donna incinta alla quale l’uomo avrebbe regalato un paio di scarpine da neonato con il chiaro scopo di dissuaderla dall’abortire.
L’uomo ha perciò dovuto pagare una multa di 10.000 euro, rischiando inoltre un mese di reclusione, perché riconosciuto colpevole di aver infranto la legge Weil del 1975 che ha introdotto il reato di intralcio all’aborto, considerando quest’ultimo un diritto di tutte le donne che non desiderano portare a termine la gravidanza.
Naturalmente ciò ha suscitato lo sconcerto di tanti, a partire dai numerosi movimenti pro life attivi in Francia, una nazione commossa solo nel secolo scorso dall’intelligenza umana di Jérὂme Lejene il quale, difendendo la dignità della vita umana tutta intera, scoprì nel 1959 la sindrome di Down.
Siamo chiaramente di fronte ad un paradosso: se oggi, infatti, è multata la fobia dell’aborto, non sarà difficile domani multare i bambini per la loro paura del buio e non passerà molto tempo prima che una madre sia multata per il timore che suo figlio getti via la propria vita. Sarà addirittura perseguitato quel ragazzo che solo per un momento sperimenterà la paura nell’accorgersi che il tempo trascorso con la propria amata non porta con se un inveramento del loro amore. Si assiste così alla stupida e insieme feroce messa in dubbio della semplice – direi quasi banale – evidenza delle cose. E questo fa terribilmente paura.
Ma perché un primo comprensibile sconcerto non imputridisca presto in una sterile e borghese indignazione, è necessario chiedersi cosa vi sia di buono in tutto questo per noi e per la vita della Chiesa. La risposta è inequivocabile: il rinnovarsi della coscienza di essere chiamati ad una guerra, l’unica degna di essere preparata. Si tratta di un duello da proporre con matura gioia in difesa della mera esistenza dell’essere che, in quanto tale, è e non può non essere. E dal momento che è e c’è, implora di essere riconosciuto e affermato.
Ciò rende la nostra una di quelle guerre per chi, pur non avendo grandi spalle, ha comunque del cuore e merita di servire con dignità nella fanteria, sul terreno della scontatezza e con lo stemma dell’ovvio cucito sul petto. Sembra realmente riecheggiare ora nella carne quello che Chesterton, principe del paradosso, scriveva nella sua Londra agli inizi del 1900: «Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro, spade saranno sguainate per dimostrare che le fogli sono verdi d’estate». Se non altro, come tutte le sfide sincere, questa avrà almeno il pregio di evacuare la noia, quella disperazione abortita che è il grande nemico dell’umanità.
Quale gloria, dunque, ci verrà per essere usciti vincitori da questa impresa? Ancora l’autore inglese acutamente la coglie e così scrive: «Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.»