Pubblichiamo di seguito il testo integrale dell’omelia pronunciata dal cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della CEI, in occasione della messa celebrata ieri pomeriggio nella cattedrale di San Lorenzo per la solennità di San Giuseppe, patrono dei lavoratori.
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La solennità di San Giuseppe è occasione di preghiera e ricorrente motivo di riflessione su una realtà che, come una tenaglia, stringe un numero crescente di persone: il lavoro e l’occupazione. Tutto il Paese ne è segnato, ma Genova lo è in modo particolare essendo una città a vocazione produttiva sia nel porto che nei vari siti industriali, grandi, medi e piccoli. Siamo tutti coscienti che è questo il suo DNA originario, anche se non possiamo permetterci di escludere nulla a priori, ma dobbiamo tutto valutare in una logica inclusiva ed espansiva.
Permettete che il mio pensiero grato e affettuoso vada in primo luogo ai nostri Cappellani del lavoro: sono da tutti conosciuti per la discrezione e la presenza rispettosa che da decenni assicurano, con l’unico scopo di essere vicini ai lavoratori da sacerdoti. E’ merito della tenacia lungimirante del cardinale Giuseppe Siri, che volle garantire questa forma di servizio pastorale anche in tempi difficili. Con loro, ringrazio anche voi, cari Amici, che a tutti i livelli di responsabilità mostrate verso di loro rispetto senza pregiudizi, fiducia e apprezzamento.
E’ noto a tutti che, in questi sei anni di crisi economica, le famiglie hanno permesso che il tessuto del Paese tenesse senza lacerazioni devastanti. La famiglia si è rivelata ancora una volta la chiave di volta della società anche economica e politica: se non si può vivere senza politica, tanto meno e ancor prima non si può vivere senza famiglia certa e stabile. Ecco perché la nostra Diocesi sta lavorando, nelle Parrocchie e nelle diverse realtà ecclesiali, sull’inestimabile valore della famiglia. Essa è il grembo naturale della vita, la prima palestra di convivenza, di virtù civili e cristiane, il luogo dove si rigenerano le forze, si curano le ferite, si ricupera fiducia per riprendere a lottare, sapendo di non essere soli. Ma fino a quando i risparmi delle famiglie dureranno?
E poi bisogna dare atto a coloro – e non sono pochi – che nelle aziende hanno tenuto duro impiegando del proprio per non “razionalizzare troppo”, come si dice oggi con un eufemismo. Ma anche alla solidarietà che spesso si è sviluppata tra colleghi, perché i sacrifici e i rischi fossero meno pesanti e meglio distribuiti. Infine, se permettete, anche la comunità cristiana ha fatto e fa la sua parte, anche se spesso viene taciuta; ma il bene lo vede Dio, e lo scopo del bene è fare il bene. Per il resto, diagnosi, pronostici e tentativi! E qualche segnale positivo c’è.
E’ necessaria – e credo sia in atto – una rivoluzione culturale concreta: bisogna accelerare la conversione dall’io al noi, dal mio al nostro: non certo nel senso che non esistono più l’io e il mio, ma nel senso che non possono essere mai più intesi come degli assoluti, cioè slegati dal resto del mondo fatto di altri: persone, istituzioni, aziende, Paesi. Un mondo fatto da stagioni diverse e obbligate, come l’efficienza dell’età adulta, l’infanzia e la giovinezza, la malattia e la vecchiaia. Un mondo fatto di aree diverse di sviluppo e di risorse, di ricchi e di poveri, di giustizia e di ingiustizia, di diritti umani e della loro pratica violazione. Sì, bisogna correre su questa via di una rivoluzione culturale che investa non solo il modo di pensare privato, ma anche comunitario e sociale, con ricadute sulla concezione del lavoro, sulla visione di un’economia umana, e di una società che non sia un agglomerato di individui, ma una comunità solidale.
In questo orizzonte, si presentano alcune urgenze. Innanzitutto, sembra profilarsi un doppio binario virtuoso: da una parte la necessità di incentivare i consumi senza ritornare nella logica perversa del consumismo, che divora il consumatore; e dall’ altra la necessità di sostenere in modo incisivo chi crea lavoro e occupazione, semplificando le inutili e dannose burocrazie. Se non si velocizza e non si incentiva, si scoraggia e si allontana ogni lavoro vecchio e nuovo.
In questi ultimi tempi, abbiamo assistito ad esempi promettenti di giovani che hanno scovato vie nuove di occupazione, grazie allo spirito di intraprendenza e alla genialità che caratterizza il mondo giovanile: esso è ammirevole per pazienza, fiducia e iniziativa, e chiede di poter mettere a frutto talenti e competenze specie nella ricerca e nell’innovazione di cui c’è assoluto bisogno. Ricerca e innovazione che esigono un tessuto industriale che possa recepirne prontamente i risultati, e metterli in circolo su scala.
Poi, per tornare alla cultura del “noi”, bisogna ripensare e rimodulare la concezione del lavoro; il vecchio schema di contrapposizione è superato e non porta oggi da nessuna parte. Anzi, peggiora le cose per tutti, a cominciare dai più deboli. Bisogna promuovere sempre più una mentalità partecipativa e collaborativa dentro ai luoghi di lavoro, una visione in cui i diversi ruoli sono distinti ma non separati, perché tenuti insieme da un comune senso di appartenenza e di responsabilità verso il proprio lavoro, l’azienda, la società e il Paese. Le forme e le iniziative ci sono sia in Italia che all’estero: i buoni esempi bisogna imitarli senza per questo cedere al complesso di inferiorità, consapevoli che, nel mondo, sono ovunque riconosciuti il patrimonio professionale e la persistente sensibilità umanistica del nostro popolo.
Cari fratelli e sorelle, San Giuseppe, Patrono dei lavoratori, ci benedica e ci ispiri coraggio e fiducia per credere in noi stessi, per creare rapporti, per guardare oltre verso il mondo. Su tutti voi, i moltissimi lavoratori che rappresentate, le vostre famiglie, i giovani che ancora cercano una prima occupazione, scenda lo sguardo della Sacra Famiglia: Gesù, Maria e Giuseppe.