Siamo agli sgoccioli di questo 2012, e li passiamo in treno, attraversando la dorsale del Giappone, in viaggio tra Tokyo e Takamatsu, nel giorno dell’anno in cui i treni si trasformano in metropolitane nell’ora di punta. È come se in tutti vi fosse il desiderio segreto di saltare su questo tramonto d’anno, cercando di acciuffare la storia che si accinge a voltar pagina.
Protagonisti della fine per non trovarsi impreparati al nuovo inizio. Si fondono in questo treno tradizione e futuro, religione e business, affetti e doveri. Siamo tutti incapsulati in questi vagoni come dentro l’ennesimo giro dell’eterno ritorno della storia, in questo si crede in Giappone, e visto che non si riesce a cambiare nulla, che resti almeno la sensazione di non aver perso il turno sulla giostra, nell’illusione di non subire sino in fondo il destino.
C’è chi dorme, chi legge, chi, dopo essersi chiuso qui dentro, si isola ancor di più divenendo l’estensione di uno smartphone, o chi si inabissa come un sommozzatore tra le pagine di un manga. È così che si scivola sulla risacca della vita, non guidi tu, di nulla sei realmente contemporaneo, persone e cose sono solo un flash che appare e altrettanto improvvisamente sparisce.
I compagni di viaggio, matrioske dove si celano identità sconosciute, ti sono accanto segnando il trionfo del fato. Volti disegnati da giorni e anni di storie uniche che, in questa corsa verso il compimento dell’unica storia, non hanno nulla da dirti. Un treno ci unisce, lamiere e motore, ed è tutto. Ci ha fatti incontrare questo giorno magnetico, ma non ci guardiamo neanche, è morta tua moglie? Tuo padre è rimasto a casa? Lavori, studi, sei pensionato? Per caso oggi sei felice? Nulla.
Silenzio spettrale, fa caldo ma sembra d’essere sulla banchina ghiacciata del Polo. Storie che si sfiorano senza incontrarsi, corpi intrecciati nel tentativo di guadagnare l’uscita tra borse, pacchi e bambini sguscianti tra le gambe dei genitori. Ma in fondo va bene così, è meglio così, la salvezza è dentro questo flacone di anestetico che attutisce e smorza i colpi, come una sciarpa che ti ripara dal freddo.
Questo treno sfreccia a quasi 400 all’ora e non senti un sibilo, prodigio d’un progresso che riesce a spegnere l’anima, e andiamo tutti, velocemente e silenziosamente, verso una qualche stazione, ma non abbiamo occhi per guardare, e orecchie per ascoltare, e testa per pensare, e cuore per amare. Arriveremo, abbracceremo genitori, nonne e zii, mangeremo e berremo, e torneremo da dove siamo venuti, identici nello stesso treno, accanto a facce nuove eppure uguali e indifferenti, impermeabili ogni istante di più a quanto ci accade intorno, perché incapaci di comprendere quello che ci succede dentro.
Eppure qualcosa ci dice che non è solo questo la nostra vita, in Giappone dove lo “shogatsu”, il capodanno, è l’unico giorno in cui si fermano molte attività, non troppe per carità, e in ogni altra parte del mondo, dove treni diversi caricano le stesse esistenze per depositarle, stordite, in qualche destino.
Un lampo sfuggito ai più, e questo viaggio, e ogni viaggio, si illumina inaspettatamente; un ragazzo, che sembra esserci nato sul suo sedile, ipnotizzato dal gioco del suo smartphone, sono due ore che non dà segni di vita, unico movimento, quello delle due dita che bussano compulsive sul display. Un impercettibile colpo di freno scuote il suo corpo, e, misteriosamente contemporaneo, sibila un vagito, proprio lì a venti centimetri da lui, un suono così straniero da insinuarsi tra le note sparate nel cervello, così potente da sollevare per un istante il suo sguardo.
Che cosa sia successo nel cuore di quel ragazzo in quella frazione di secondo lo sa solo Dio, ma il fatto è che i suoi occhi intercettano un abbozzo di bimbo tra le braccia di una minuscola mamma, aggrappata improbabilmente alla sua valigia, sospesa come una bolla di sapone. Un pensiero e un gesto coagulati in un istante benedetto dal Cielo, e questo treno si fa Betlemme, e un ragazzo e la sua “grotta” dischiusa e donata a una madre e al suo bambino.
L’amore, parola grossa, si fa strada nell’indifferenza, e un sorriso spontaneo risponde alla gratuità sbocciata per l’incanto di un miracolo. Sappiamo bene che si tratta di un gesto previsto dalla civica educazione, e che appositi cartelli invitano a questa gentilezza. Ma bisogna esserci in questa calca, e riconoscerla identica a quella di ogni giorno che scivola via inerte inghiottendo inesorabilmente i vagiti divini dell’ “immagine e somiglianza” seminata nel cuore di ciascuno.
Bisogna respirare sino in fondo la solitudine di un Paese schiacciato sulle formalità e oppresso da regole e doveri che umiliano la persona e la sua libertà, sottraendole la speranza di una vita nuova e diversa. Per questo, oggi, questo ragazzo che si alza risplende come una profezia e una buona notizia, la primizia di ogni giapponese, e di ogni uomo, raggiunto dalla Grazia capace di risuscitarlo e liberarlo; un segno, piccolo e fragile, come un diamante incastonato nell’agonia di un anno e nelle doglie del nuovo che sta per nascere.
Passa il tempo, e con esso tutto quanto non sia stato pensato, detto e fatto con amore. Scorre veloce la vita, come questo treno, ma la speranza è intatta, incarnata in un atto d’amore, l’unica memoria viva del viaggio a cui tutti siamo chiamati. Un ragazzo, “cinque pani e due pesci tra le mani”, un semplice sguardo destato per un attimo, fattosi attento a chi bussava al suo cuore.
Il bimbo che piangeva accanto a quel ragazzo era Cristo tra le braccia di sua madre, la Chiesa; si è imbarcato con noi sul treno della vita, e la sua voce chiama ancora tra la folla, mentre la sua Carità ci spinge ad essere qui per annunciare il suo Nome, piccoli suoi apostoli a destare in ogni passeggero lo sguardo che accolga la sua vittoria sulla morte, le deboli braccia della Chiesa sua madre, ad offrire il suo amore che riscatta e santifica ogni vita.