di Pietro Barbini
ROMA, venerdì, 14 dicembre 2012 (ZENIT.org).- Teologo, poeta, mistico, sacerdote e fondatore dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi, San Giovanni della Croce, proclamato santo nel 1726 da Benedetto XIII e dottore della Chiesa da Pio XI nel 1926, rappresenta una delle figure di spicco della cultura occidentale, considerato un maestro della mistica cristiana (santa Teresa d’Avila lo chiamava “padre della mia anima”) e uno dei maggiori poeti in lingua spagnola. Il suo pensiero ha influenzato moltissimi autori, filosofi e teologi come T. S. Eliot, Thomas Merton, Edith Stein, Jacques Maritain, Hans Urs von Balthasar, Giovanni paolo II e molti altri ancora.
Questo sacerdote spagnolo, come molti altri santi prima e dopo di lui, ebbe modo di sperimentare concretamente, nel corso della sua vita, l’abbondanza della grazia divina attraverso un lungo e tortuoso “cammino” ricco di precarietà, sofferenze e umiliazioni, ma come usava dire il santo “Dio umilia grandemente l’anima per innalzarla poi molto”, ma perché questo si compia è necessario che l’uomo dia tutto di sé con spirito d’amore.
San Giovanni della Croce nacque in una povera famiglia nei pressi di Avila nel 1540; rimasto orfano di padre dovette lavorare per pagarsi gli studi, presso un collegio Gesuita, terminati brillantemente i quali entrò nell’Ordine Carmelitano con il nome di Frà Giovanni di San Mattia. Successivamente fu inviato a Salamanca per studi dove conobbe Santa Teresa d’Avila, primo momento di svolta della sua vita, della quale divenne stretto collaboratore.
Il secondo importante episodio, quello che cambiò definitivamente la sua vita, avvenne 1572, quando, accusato ingiustamente di essere un “frate ribelle”, venne rinchiuso per nove mesi in un carcere a Toledo dove conobbe ogni sorta di patimento (fame, sete, freddo, malattia, solitudine, percosse e scherno). In questa difficile situazione, insostenibile per qualsiasi altro essere umano, san Giovanni compose le sue più famose e struggenti poesie d’amore, ricche di pathos e passione per quel Dio, continua fonte d’ispirazione, che mai l’aveva abbandonato nel corso della sua reclusione e che sentì sempre al suo fianco nei momenti più difficili.
Tra le sue opere più significative sono il “Cantico spirituale” e la “Notte oscura dell’anima”, due capolavori di altissimo livello ed inestimabile valore per l’intensità espressiva dei suoi versi e il forte simbolismo della poetica.
Il primo descrive la ricerca angosciata dello sposo perduto, Gesù Cristo, fino al felice ritrovamento, definito una sorta di Cantico dei Cantici del nuovo testamento, il secondo racconta del difficile viaggio dell’anima fino alla pienezza dell’unione con Dio; dalla “notte buia”, che rappresenta le difficoltà dell’esistenza, descritte magistralmente dal santo, fino ad arrivare all’incontro e all’unione con Dio, turbine dell’esistenza, capace di riempire quel vuoto esistenziale dell’anima insito dell’uomo, un’unione che completa, tanto da trasformare l’uomo stesso (“amata nell’Amato trasformata!”).
San Giovanni della Croce, attraverso la sua poetica, esorta i fedeli ad abbandonare la propria volontà, sempre limitata in quanto umana, così da poter accogliere pienamente Cristo e rinascere con Lui a nuova vita. Questo è il punto fondamentale di tutta la sua opera, attraverso la quale il santo traccia un vero e proprio “percorso dell’anima”, valido per tutti e a tutt’oggi attualissimo, per giungere all’incontro e all’unione con il divino.
Questo cammino spirituale, che prevede il passaggio di tre fasi, “purgativa, illuminativa e unitiva”, richiede uno sforzo ascetico dell’anima non indifferente, ma che indubbiamente verrà riappagata in futuro quando l’uomo, liberato da ogni attaccamento terreno e da ogni peso dell’anima, sarà del tutto puro e libero di giungere all’unità con Dio. Il santo poeta, infatti, sottolinea che “l’anima non può essere posseduta dall’unione divina, finché non si sia dispogliata dell’amore delle cose create”.
Tutto il pensiero, la poetica e la mistica crociana, in sostanza, ruotano attorno a quella che potremo definire come una sorta di “teologia del profitto”, ossia, rinunciare a tutto per poi riavere, per grazia divina, tutto in aggiunta, in quanto, solo ed esclusivamente rinunciando alle “cose del mondo”, e dunque, attraverso l’atto simbolico dello “spogliarsi dell’uomo vecchio”, è possibile l’incontro e l’unione con Dio, Sommo Bene, pace perpetua e pienezza dell’anima.