La centralità del valore della persona punto di forza della biopolitica

Speciale Manifesto 1 | La disputa si è spostata dalla proprietà alla vita

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di Giuseppe Acocella*

ROMA, domenica, 9 dicembre 2012 (ZENIT.org).- Già nella prima metà dell’Ottocento, Alexis de Tocqueville individuava nell’inarrestabile sviluppo dell’eguaglianza il motore dell’affermazione della democrazia, e lucidamente prefigurava la contrapposizione tra mondi in conflitto a causa di diverse visioni politico-economiche, tra Est ed Ovest, pianificazione collettivista o capitalismo liberale, sul terreno della proprietà, sul quale si sarebbe giocata la sfida della democrazia stessa. Il destino dei regimi, ed il confronto storico che avrebbe segnato la politica contemporanea, sarebbe stato determinato dunque dalla disputa sulla proprietà molto più che dalla ricerca di architetture per i nuovi assetti istituzionali, liberali o collettivistici che fossero.

Il tempo si è incaricato di dare ragione alla preveggenza di Tocqueville il quale, in una lettera del gennaio del 1835 all’amico Louis de Kergolay, apertamente avvertiva che la politica, se pur deve certamente considerare tutte le posizioni e le soluzioni possibili, non può valutare che tutte le posizioni siano assimilabili e apprezzabili in egual misura, tanto che nel Capitolo settimo del libro secondo della Democrazia in America giunge a sottolineare che, certo, «è nell’essenza stessa dei governi democratici che il dominio della maggioranza sia assoluto, poiché fuori della maggioranza nelle democrazie non vi è nulla che possa resistere», ma occorre esser vigili perché, se è solo la presunzione della superiore saggezza del numero che rende il principio di maggioranza un «impero morale», la democrazia potrebbe covare in sé il rischio terribile di legittimare una effettiva tirannide della maggioranza, e di perdere così la superiorità morale che essa intende vantare verso ogni altro regime.

Se, infatti, ci si limita ad argomentare e deliberare sulle preferenze, fossero anche le preferenze di maggioranza, o le preferenze di un gruppo “illuminato” di tecnici, o persino della società divisa in gruppi (e unanime nel rivendicare le preferenze di ciascuno), non sarebbe adeguatamente affermato il principio della partecipazione come fondamento della democrazia. Indispensabile compagna dei regimi democratici, dunque, non può che essere la critica del principio di maggioranza, che pur caratterizza la partecipazione responsabile. Il principio di maggioranza è un metodo ineludibile per assumere decisioni che si desiderano giuste nei regimi democratici, ma non è il criterio per riconoscere la sostanza del bene. Questo può diventare il grande equivoco: che la maggioranza sia di per sé portatrice del bene (in specie quello comune, che va ricordato senza peraltro per ora entrare in una discussione complessa), e che di conseguenza non vi sia alcun bisogno dello sforzo di educare alla democrazia. All’opposto si può pensare che la democrazia consista nel dar ragione a singoli e gruppetti, talché la legge debba limitarsi a sancire le pretese di ciascuno che le avanzi, riconoscendole come diritto singolare, anche quando sia in contraddizione al diritto comune. Il fondamento etico e non meramente procedurale della democrazia come partecipazione di ciascuno alla comunità non può invece essere eluso, ed in specie se politica e legislazione intendono intervenire su quanto di più essenziale ed intimo riguarda la persona.

In coerenza con la prospettiva individualistica che è venuta affermandosi, la situazione è radicalmente mutata: la disputa sulla proprietà – che ha segnato la ricerca della miglior democrazia, dal liberalismo fiorito dopo la Rivoluzione francese contrapposto alla “Congiura degli Eguali” di Babeuf, fino alle esperienze storiche novecentesche del socialismo reale e del liberismo individualista – che aveva preconizzato Tocqueville, è andata svanendo dopo due secoli, all’inizio del terzo millennio (non senza conseguenze sulla eguaglianza sostanziale), sostituita da una diffusa, maggioritaria concezione utilitaristica, finalmente dichiarante la resa, tanto delle socialdemocrazie quanto dei regimi liberaldemocratici, in nome dell’accesso di massa ai consumi crescenti, al pensiero unico del libero mercato che però finisce per allargare il solco sociale tra i ceti. La disputa politica – senza che larghe aree dei movimenti politici se ne siano sempre accorte – dal tema della proprietà si èspostata sulla vita. Il confronto – aspro fino a generare contrapposizioni ideologiche non meno estreme di quelle che hanno segnato la politica degli ultimi due secoli – è dirimente per la democrazia: il contrasto si riassume nell’assecondare il soddisfacimento delle pulsioni individuali, anche grazie alle nuove opportunità tecniche e biotecnologiche, fino a poter disporre liberamente di sé (esaltando il principio di autodeterminazione anche quando sia soggetto a condizionamenti materiali o morali), oppure, all’opposto, interpretare la democrazia come eguaglianza che fonda la tutela dei diritti di ciascuna persona, quale che sia la condizione in cui si trova, come interesse comune alla salvaguardia della vita di ciascuno fin dal concepimento, in nome della libertà comune. E’ quanto sostiene il Manifesto su “Scienza e cura della vita: educazione alla democrazia” che – dopo aver sottolineato che «la tutela della vita costituisce il presidio del mutuo riconoscimento degli esseri umani come uguali nei loro diritti» – ribadisce quali siano i nuovi termini nei quali va declinata la democrazia: «Fondamento della democrazia è, dunque, la rilevanza per l’intero corpo sociale – in pari dignità, diritti e doveri – di ciascun individuo umano, con particolare attenzione per la tutela di coloro che si trovano in condizioni di particolare vulnerabilità, come, per esempio, nello stato di malattia o di diversa abilità».

Su questo punto si divaricano profondamente le concezioni che disputano intorno alla democrazia. Occorre chiedersi infatti se la dignità (ed indisponibilità) della persona umana, la centralità dell’eguaglianza negli ordinamenti contemporanei (al di là di ogni diseguaglianza fisica o di capacità) rimangano principi irrinunciabili e fondanti la comunità organizzata e civile. Il Manifesto esordisce con questa definizione: «La democrazia, come concezione politico-sociale e come ideale etico, si fonda sul riconoscimento dei diritti inviolabili di ognuno, indipendentemente da qualsiasi giudizio circa le sue condizioni esistenziali». Insomma: la responsabilità di valorizzare ciò che è umano chiama l’umanità continuamente a salvare (proprio nel senso che all’espressione attribuisce Capograssi) il diritto soggettivo che venga messo in crisi dall’arbitrio di chiunque eserciti (Stato, legislatori, tecnici, familiari) il proprio potere su chi sia in condizioni – temporanee o permanenti – di potestà, di capacità, di volontà diminuite.

Faticosamente, con un percorso storico lungo e accidentato, l’<em>idea della vita come enunciato irrinunciabile della persona si è affermata nella esperienza sociale e giuridica attraverso il riconoscimento della irripetibilità delle individuali volontà, confluenti però storicamente nella esperienza comune, che non cancella l’originalità di ciascun atto personale. La centralità del valore della persona hacostituito un punto di forza dell’equilibrio raggiunto nell’età contemporanea tra le opposte esigenze dell’individualità e della oggettività del valore. La biopolitica sembra cogliere ed al tempo stesso corrispondere al disorientamento avvertibile nel nostro tempo, accentuato dalle insicurezze che la coscienza umana scopre in questo cammino che aveva sperato progressivo, tanto da illudersi, dall’Illuminismo in poi, che un luminoso progresso senza interruzione fosse riservato all’umanità. A q
uesto ha fornito un contributo decisivo «l’esaltazione della scienza come forma esclusiva di approccio alla realtà umana» fino a comprometterne «la fecondità, presentandola come unica modalità interpretativa della vita», come sottolinea il Manifesto di Scienza e vita.

Si pone insomma con evidenza terribile l’interrogativo cruciale: il diritto è sempre la persona, come rosminianamente l’età contemporanea aveva compreso? Si ripropone la questione che sembrava superata nei criteri fondativi delle democrazie contemporanee: quella riguardante soggetti che – per quanto le legislazioni ne abbiano riconosciuto la capacità giuridica oltre a quella politica – non possono esercitare il diritto all’esistenza – in una società che celebra solo la salute, il possesso, l’indipendenza – discriminati da situazioni di debolezza e precarietà, di minorità, di solitudine. Non è questo che induce a considerarsi indegni di vivere quando si veda, da sani, il proprio futuro di malati ed impotenti, o quando ci si senta abbandonati dagli altri, dalla comunità? Non è questo principio, forse, della medesima natura che assume la ripugnante pretesa – respinta negli ordinamenti civili e gravemente punita – con cui il padrone pretende di disporre dello schiavo, il potente degli sconfitti in guerra, il genocida della razza giudicata inferiore, l’adulto del minore, o, in genere, il più forte del più debole? Non è questa forse il vero nodo, la sfida cruciale per la democrazia?

Proprio quando finalmente la scienza sembrava aver realizzato il sogno dell’umanità di poter portare rimedio alle malattie apparse più invincibili e crudeli, in quelle situazioni nelle quali «il supporto delle scienze biomediche delle biotecnologie è ovviamente indispensabile», l’assistenza sanitaria può correre il rischio di apparire più selettiva e discriminante, respingendo l’idea che il valore sociale fondativo della convivenza umana sia costituito dalla tutela della vita senza riserve, fino ad esaltare, in nome della qualità della vita, la rinuncia ad essa. Di fronte a questo bivio, ribadisce il Manifesto, «Nell’assistenza, nel prendersi cura dell’altro, si misura il senso della solidarietà», e proprio in questo ambito «Nella relazione di cura, la scienza si coniuga con la cura, l’arte tecnica con l’arte morale, lo scopo con il senso, la libertà con la responsabilità». L’idea della vita può costituire dunque un orientamento necessario, in una società non più omogenea culturalmente, per guidare la legislazione su materie che coinvolgono i diritti fondamentali nelle moderne società. Rischia infatti l’inconcludenza ogni soluzione che comporti alla fine il rifiuto della legge etica rassodata dall’esperienza storica, portatrice proprio di una idea della vita che la civiltà giuridica ha progressivamente e lentamente consolidato nei diritti umani, custodendone i principi e traducendoli in norme.

È necessario insomma che l’uomo torni a dominare con le scelte etico-giuridiche proprio la tecnica – per renderla non rassegnata né alla coincidenza del possibile etico con il possibile tecnico, né alla identificazione del «normale» con l’usuale statistico – cosicché la civiltà della tecnica si formi essa stessa una idea della vita, se vuole evitare che il distacco tra scienza e vita si faccia incolmabile proprio quando la scienza e la tecnica sembrano poter servire alla vita come mai prima era accaduto nella storia dell’umanità. La convinzione che l’opinione corrente, in ciascuna epoca storica, non rappresenti di per sé un principio etico comunque accoglibile, ha sostenuto lo sforzo incessante con cui la riflessione etica e l’esperienza giuridica hanno motivato l’incessante aspirazione al riconoscimento di criteri di civiltà corrispondenti alla “natura” razionale umana, in nome della ragione non astratta. L’esistenza umana, in una prospettiva puramente naturalistica, viene infatti inevitabilmente assoggettata a valutazioni quantitative e considerata alla stregua di ogni altro interesse o bene, fino a giustificare l’asserita inutilità – produttiva, sociale e umana – della vita, con esiti che possono sconfinare in una nuova eugenetica (alla quale fece ricorso non solo la barbarie nazista, ma – appunto illudendosi di servire al progresso umano – anche una socialdemocrazia nordica negli anni Trenta del Novecento).

Insomma anche nella politica si deve tornare a parlare di bene comune, chela Gaudium et spes definiva«l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente», a cui fa eco dunque la conclusione del Manifesto: «Declinare secondo scienza e cura la vita significa educare alla democrazia, allo sviluppo della persona nella sua totalità».

* Professore Ordinario
Filosofia del Diritto
Università di Napoli “Federico II”

(Per consultare la newsletter di Scienza & Vita, si può cliccare sul seguente link: http://www.scienzaevita.org/materiale/Newsletter61.pdf)

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ZENIT Staff

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